Sette anni e mezzo dopo Marco Doria, sindaco di Genova dal 2012 al 2017, battezzato dall’oggi trionfante Marco Bucci come il sindaco della “decrescita felice”, sta nel cuore del suo Dipartimento di Economia.
Sta in mezzo ai suoi studenti, tra il Museo del Mare e l’Hennebique, vecchio catafalco di cemento armato, a pochi metri dall’acqua della Darsena. Quello che il suo predecessore sindaco, Beppe Pericu, recuperò alla città, mentre quel silos granario è ora solo pieno delle promesse non mantenute del suo successore, appunto Marco Bucci. Appena diventato ex sindaco dopo sette anni di regno trionfante. O quasi.
Neppure un battito di ciglia polemico, sette anni e mezzo dopo da questo ex sindaco “indipendente”, come ricorda con l’unico guizzo di orgoglio in una lunga chiacchierata al passato.
Ma troppo vicina, questa sintesi, al presente elettorale e alle polemiche che per questo tempo hanno seppellito i cinque anni, appunto dal 2012 al 2017, del regno di questo Doria, trentadueesimo successore (si dice) di Andrea Doria, ultimo erede di una Dinastia che ha fatto la storia di Genova e non solo della sua Repubblica.
Oramai incessantemente presentato come il sindaco della “decrescita felice”, a capo del “regno dei no”, dai suoi successori, soprattutto da Marco Bucci, sindaco appena diventato presidente della Regione e da Giovanni Toti, Marco Doria non ha mai replicato.
A Genova un Doria è sempre un Doria
Uscito in silenzio da Palazzo Tursi oggi apre la porta del suo riserbo, che è anche la forma del suo stile e in qualche misura del suo lignaggio di un Doria, figlio di Giorgio, detto il “marchese rosso” per le sue idee e iscrizioni a sinistra, già vicesindaco della prima giunta rossa genovese nel 1975, docente universitario, come il figlio, illustre storico.
Doria figlio ci tiene a sottolineare come la sua discesa in campo nel 2011, nella allora molto di moda sfida delle Primarie, fu compiuta da indipendente, mentre stava maturando la crisi dei partiti e si stava rompendo più di un meccanismo e si preparava la grande cavalcata populista. Seguita all’Italia vicina al crak con il salvagente lanciato al senatore a vita appena nominato, Mario Monti, perché salvasse i conti del Paese in default.
“La mia candidatura era nata completamente fuori dai partiti, grazie a un movimento trasversale, racconta Doria, nel quale si eranoschierati tra gli altri personaggi come don Andrea Gallo, l’avvocato Alessandro Ghibellini, Silvio Ferrari, il grande professore ideologo del Pci, lo statistico Paolo Arvati, il direttore del Teatro Stabile Carlo Repetti, la sovraintendente Giovanna Rotondi Terminiello, insomma una intellighentia di sinistra molto raziocinante…. E oramai cosciente della crisi che stava attanagliando tutti i partiti e quindi anche il Pci diventato Pds, poi Ds e Pd.
Nasceva quella spinta fuori dalla logica del sistema partiti e affrontava la selezione delle Primarie che allora erano attuali e molto frequentate.
Intervista con Marco Doria
“Si facevano in Italia ed anche a Genova, dove uscivamo dai cinque anni di Marta Vincenzi sindaco“, ricorda Doria, che si presentava a quella disfida appunto come “indipendente”, staccato dal suo passato di consigliere comunale Pci, con simpatie giovanili forti per Rifondazione Comunista, poi diventata SEL, nel pieno di una tradizione paterna, che aveva anche scandalizzato ma non troppo una società genovese molto cristallizzata e quasi consacrata nei suoi palazzi, nei suoi salotti, nelle sue fabbriche, nei suoi “muri” che gli ultimi Doria avevano rotto fino ad arrivare a una minaccia di diseredazione.
In quelle Primarie fatali al destino di Doria a correre erano. oltre a lui, Marta Vincenzi stessa, in cerca di una conferma popolare che il partito non le concedeva, la deputata Roberta Pinotti, futura ministra della Difesa, che rientrava a Genova, spinta da ambienti forti, nella convinzione di farcela e due outsider, Angela Burlando ex dirigente della Polizia di Stato, poi dedicata al volontariato e in particolare ai detenuti e Andrea Sassano.
Il risultato di quelle Primarie fu come un colpo da ko, il primo di una lunga serie per il “Partito”, roccaforte che impugnava non solo Genova ma la Liguria da decenni e che mai era stato contraddetto al suo interno.
Votarono in 24 mila e Marco Doria sbancò, con 12 mila voti, sconfiggendo largamente le due zarine, con la Pinotti, considerata favorita, addirittura terza.
Incominciava così la vera sfida, quella al centro destra che avrebbe sfornato la candidatura di Enrico Musso, docente di Economia dei Trasporti, quindi collega del professor Doria, che aveva ammaliato Berlusconi su segnalazione di Claudio Scajola.
Allora, tanto per dare una proporzione, il Pci aveva 4000 iscritti,,,,
“Voleva dire che avevo intercettato un elettorato trasversale, uscito dai meccanismi classici dei partiti, con voti conquistati anche negli ambienti della borghesia genovese. “, racconta Doria, ricordando poi che nelle elezioni vere, quelle contro Musso, il candidato del centrodestra, aveva vinto eccome nei quartieri borghesi come Albaro e Castelletto.
Finì come si sa con la vittoria 60 a 40 del candidato indipendente. Che tale sostiene di essere rimasto.
“In realtà- dice con la tranquillità di una ricostruzione serena- il Pd non mi ha mai considerato il suo sindaco, non ero iscritto, mi avevano scelto in un altro modo, avevo vinto nettamente le primarie 12 mila voti su 24 mila…”
Doria si scelse la sua squadra in maniera totalmente autonoma e lontana dai partiti: 11 assessori tutti pescati dal suo zaino di professore universitario e anche di figura intermedia della società genovese, dove brindavano tanti ambienti, anche qualche salotto altolocato, che faceva uscire questo mormorio : “Almeno Doria viene da una famiglia che si conosce….”.
Altro che si conosce….forse la dinastia, più che la famiglia più nota della storia secolare.
Undici assessori tutti scelti con trattative condotte, per altro, con i partiti, da una posizione di assoluta libertà. Ovviamente ne uscirono sei uomini e cinque donne, cinque puramente tecnici.
Il Pd aveva fornito addirittura 15 nomi, ma Doria ne scelse solo 3 . Perfino l’Italia dei Valori si fece avanti proponendo, come racconta Doria, tre nomi, che lui mise nel suo zaino e si guardò bene dall’indicare: l’ineffabile Stefano Anzalone, quello appena candidato capolista da Bucci e trombato nelle ultime elezioni regionali, l’immortale Margherita Rubino, ex assistente del celebre grecista Albini, una prof per tutte le stagioni, vicinissima allora alla vice presidente della Regione, la vamp Marilyn Fusco, moglie di Giovanni Palladini, ex sindacalista della polizia, deputato Idv, una meteora nel cielo genovese.
Ovviamente questi candidati, rimasti nel sacco (il terzo era un giovane pressochè ignoto) una volta che si schierò il consiglio comunale si misero subito a votare contro Doria….
Tra gli assessori scelti in coscienza e scienza Doria piazzò Carla Sibilla al Turismo e alla Cultura, grande esperta in materia, direttrice dell’Acquario dei record, figlia di Angelo, grande architetto e leader Dc più volte gambizzato dalle Br e Pino Boero alla Scuola, docente universitario di fama.
“Politicamente coprivo tutto io”, ricorda il sindaco di quegli anni 2012-2017, che aveva al suo fianco due cavalli di razza Pci e oltre. Stefano Bernini e Gianni Crivello, che venivano dalla presidenza di due Municipio chiave nella geografia genovese, quello di Ponente e quello della Valpolcevera.
Ma erano anni nei quali il populismo stava montando come un’onda inarrestabile e nei ricordi di Marco Doria il quadro politico stava per esserne travolto. Il vaffa di Grillo stava per spianare l’Italia.
Un vero terremoto, la cui
rappresentazione plastica può anche essere quella scena di palazzo Chigi, nella quale, alla fine delle elezioni politiche del 2013, si confrontano Bersani, il presidente designato e i grillini strafottenti e minacciosi.
Insieme a Doria, in quella tornata viene eletto sindaco a Parma il grillino Pizzarotti che poi intraprenderà un percorso ben lontano e critico dei 5 Stelle, e a Palermo ritorna Leoluca Orlando, ben lontano dalle sue origini Dc.
Nelle casse del Governo, non c’è una lira. Veniamo dal governo di Mario Monti, quando Marco Doria conquista la Superba e piazza il gonfalone di famiglia sul tetto di Tursi e siamo vicini a un arrivo in Italia della troika che sta facendo a fette la Grecia.
“ Non c’è da scialare, ricorda il Doria, e bisogna evitare il dissesto…la spesa si deve contrarre. Queste erano le parole d’ordine: vietati gli investimenti pubblici….”
E allora in queste condizioni cosa può fare un sindaco, appena eletto, indipendente, nel guado della sua amministrazione, percepito come solo, benedetto da don Gallo e dai suoi amici, separati in casa rispetto alla sinistra, lontani da un sistema dei partiti in disfacimento?
Alzando solo di un centimetro il sopracciglio del suo orgoglio di nobile schiatta il professore Doria, oggi solo prof, ricorda le opere per combattere il dissesto idrogeologico, l’avvio dello scolmatore del Fereggiano, quel rio maledetto che sotto l’amministrazione precedente di Marta Vincenzi aveva ucciso sei persone, tra cui due bambini.
Un’opera avviata finalmente e che sarà conclusa da Bucci anni dopo in pompa magna. I 20 milioni iniziali per costruire quel tunnel salva vita vengono fuori dalla giunta Doria.
Come quelli per mandare avanti la copertura del Bisagno e avviare questo altro scolmatore, oggi, sotto il regno di Bucci, fermo da mesi e mesi. “Nacque tutto dall’ottimo rapporto intessuto con Italia Sicura di Matteo Renzi, spiega Doria, spezzando più di una lancia in favore dell’ex leader con il quale il rapporto doveva essere stato più che sciolto, malgrado le evidenti distanze politiche.
“In quegli anni, abbiamo anche demolito molte costruzioni pericolose sul greto del Chiaravagna, in particolare uno stabilimento Sutter….”
Insomma quelli del no, secondo Bucci, qualche realizzazione la avevano portata a casa.
Mai Doria aveva accettato di rispondere alla martellante campagna del suo successore e di chi aveva definito la sua amministrazione quella della “decrescita felice”, del “partito dei no”. Non risponde neppure ora che un’altra campagna elettorale genovese spinge alle porte, dopo il successo di Bucci alle Regionali, dove è caduto Andrea Orlando.
“Chi ha costruito la Strada Guido Rossa, dandole quel nome che era quello di un mio amico personale, ucciso dalle Brigate Rosse, dice Doria. Siamo stati noi. Poi Bucci l’ha conclusa, quando è caduto il ponte Morandi. Chi ha terminato l’operazione della fascia di Prà, che ha cambiato faccia al quartiere, risolvendo problemi tecnici con le ferrovie e lla strada Aurelia, che coinvolgevano l’abbassamento della linea ferroviaria.
“E il rilancio di Molassana, dopo la demolizione dello Stabilimento della Boero Colori trasferito nell’entroterra, con le nuove case e la grande piazza?”
Difficile scovare una punta di orgoglio o di rivendicazione nelle parole dall’ex sindaco che taceva da sette anni e che non ha certo chiesto lui di parlare.
Questo è solo il bilancio di un mandato, incenerito nelle ricostruzioni degli avversari stra vincenti.
Ci si può aggiungere l’operazione Fiera del Mare e Water Front che ora Bucci e Picciocchi, sindaco e vice, successori del centro destra trionfante, stanno portando a compimento con la creazione di un nuovo quartiere di case di lusso e grande distribuzione, canali e promenade, Palasport ricostruito, piste di congiungimento tra quella parte di città e il Porto Antico.
Doria racconta come ha sistemato le cose perché tutto quello partisse e andasse avanti , magari non secondo la sua visione. “Ricordo quando la presidente di Fiera Sara Armella venne a dirmi che stava fallendo, in un momento nel quale il comune aveva un credito di 49 milioni di euro……”
Le operazioni di salvataggio si susseguono con varianti del Puc il piano regolatore, cambi di destinazioni di scopo, coinvolgimento di Spim, uso non più fieristico del territorio…….una complicata azione di mediazione tra tanti soggetti, che quel sindaco di allora rivendica, ricostruendo un’operazione fatta probabilmente quasi in silenzio….
Nel suo ricordo di quel periodo sepolto e che magari ora tornerà indietro in un tempo politico diverso e suscitando qualche clamore non si può dimenticare la azione culturale forte, condotta attraverso, soprattutto Palazzo Ducale, nel quale il presidente di allora, Luca Borzani era una macchina da guerra che sfornava grandi iniziative e una presenza marcata quotidiana su tutti gli eventi, dalla “Storia in piazza”, al Festival di Limes, a grandi eventi, al salvataggio del teatro Archivolto, alla federazione del Teatro Nazionale, al lancio definitivo del Festival della Scienza, con la risoluzione dell’assetto interno molto conteso tra i due “conduttori”, Vittorio Bo e Manuela Arata.
Marco Doria chiude il suo zaino e torna in mezzo agli studenti del suo corso che lo aspettano in questi lunghi corridoi del Dipartimento di Economia, dove ti potresti anche perdere, sospeso tra la Darsena di Genova, i silos abbandonati e gli spazi aperti sul porto dei traghetti, delle gigantesche navi da crociera. Tra la Genova del “fare” che magari tutto non si fa e quella dei “no” che magari non erano tutti proprio “no”.