I motivi del no alla carne coltivata: intervista a Luigi D’Eramo, sottosegretario all’Agricoltura

Il no alla carne coltivata in vitro resta un cavallo di battaglia del Governo Meloni, che ha messo su carta la sua posizione contraria con un disegno di legge che ne vieta la vendita, la commercializzazione, la produzione e l’importazione. Questa scelta si scontra con la tesi di chi la ritiene invece un’alternativa più sostenibile rispetto alla variante animale tradizionale, quella allevata.

Definirla sintetica è errato, perché la sua origine è comunque animale. Il fatto che il processo di produzione sia biologico, perché non si ottiene da tessuti o cellule geneticamente modificate, non è una garanzia per i nostri rappresentanti governativi. Di fatto, la carne artificiale in Italia ancora non esiste, non si trova in commercio. Se ne occupa solo una start up trentina, Bruno Cell, che preferisce non svelare l’identità dei suoi investitori. Al momento la vendita è autorizzata soltanto in due Paesi: Singapore e Israele, ma in generale all’estero il settore sta attirando investimenti per miliardi di dollari.

Al di là della sicurezza alimentare, forse la questione è culturale, sociale ed economica, prima ancora che sanitaria. La carne coltivata potrebbe fare concorrenza a quella allevata, come già accaduto con le alternative vegetali. Uno spettro che impaurisce i piccoli e medi allevatori italiani, i cui interessi sono difesi a spada tratta da Coldiretti, che sposa la battaglia del governo. In questo scenario, almeno per il momento, fettine e polpette in vitro made in Italy sono ben lungi dal vedere luce. Ne abbiamo parlato con il sottosegretario al ministero dell’Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste, Luigi D’Eramo (Lega).

Sottosegretario D’Eramo, perché tanta fretta nel bandire un prodotto che di fatto ancora non esiste in Italia?

“L’Italia è stata la prima ad esprimere con grande chiarezza la propria contrarietà. Non solo per il principio di precauzione ricordato quando il provvedimento ha avuto il via libera in Cdm. È una risposta alle preoccupazioni di cittadini, allevatori e coltivatori. La petizione contro il cibo sintetico ha raccolto centinaia di migliaia di firme in tutto il Paese. Vogliamo tutelare la sicurezza alimentare, il patrimonio agroalimentare e la salute pubblica”.   

Quanto c’è di ideologico in questa battaglia e quanto di realmente pericoloso per la salute del consumatore?

“Credo che ideologiche siano le argomentazioni di chi sostiene che i cibi sintetici aiuteranno a salvaguardare il Pianeta. Se si rompesse il legame millenario fra cibo e natura che cosa accadrebbe? Come sarebbe il mondo se gli alimenti venissero prodotti in enormi laboratori? Ci ritroveremmo con territori abbandonati, destinati alla desertificazione, con danni irreparabili per l’ambiente e la biodiversità, per intere filiere produttive e quindi per l’economia. E anche per il turismo”.

L’Italia non potrà impedire l’importazione da altri Paesi europei se e quando arriverà l’autorizzazione Ue a questo cibo. Non è meglio avere una propria azienda nazionale di riferimento piuttosto che una straniera?

“Lo schema di ddl – come recentemente chiarito anche dal ministro Lollobrigida – stabilisce non solo il divieto di produzione, somministrazione e distribuzione, ma vieta espressamente anche l’importazione. La stessa normativa europea prevede tra le misure precauzionali la limitazione alla libera circolazione degli alimenti e dei mangimi. Gli investimenti milionari che sono già stati fatti confermano che dietro la scusa della sostenibilità c’è solo un cinico calcolo di guadagno. Per noi invece è una questione culturale, nel senso di difesa del nostro modello alimentare, di cibo buono, di grande qualità, sicuro e strettamente legato ai territori di produzione. Caratteristiche che hanno reso il Made in Italy agroalimentare sinonimo di eccellenza richiesta e anche imitata,  in tutto il mondo. E quanto di più lontano da una standardizzazione che qualcuno vorrebbe imporci”.

Il problema degli allevamenti intensivi non è più grave di quello della carne coltivata?

“Innanzitutto, se confrontati con quelli di altri Paesi, i nostri allevamenti sono di piccole e medie dimensioni. In Europa ci sono regole che garantiscono la sostenibilità degli allevamenti che non ha nessun altro al mondo. Gli allevamenti italiani sono i più sostenibili d’Europa e quelli europei sono i più sostenibili al mondo”.

Carne coltivata e carne da allevamento. Perché non farle convivere e poi lasciare al consumatore la possibilità di scegliere?

“Ricordo che laddove la carne sintetica viene già prodotta e si può consumare, ad esempio Israele, prima di farla mangiare si chiede di firmare una liberatoria. Credo che già questo basti a sollevare più di una domanda. Ad oggi non esistono dati ed elementi sufficienti sui potenziali rischi e sulle ripercussioni sulla salute che invece abbiamo il dovere di tutelare”.

Anche il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, ha fatto riferimento alla liberatoria, sebbene chi è stato in Israele assicuri di averla mangiata senza firmare nulla. Ma veniamo alla questione ambientale, cosa risponde a chi ritiene che la carne non sia più “sostenibile” e vadano necessariamente trovate nuove soluzioni?

“In questi anni in Europa si è lavorato per garantire qualità, benessere animale e per ridurre le emissioni. E per quanto riguarda quest’ultimo aspetto l’Italia ha le emissioni più basse in Ue. Quello europeo e italiano rappresentano dei modelli da seguire. Non si può però continuare a criminalizzare un intero settore. Bene dunque che la Commissione Agricoltura del Parlamento Ue a larga maggioranza abbia escluso gli allevamenti bovini dalla nuova direttiva europea sulle emissioni industriali e abbia eliminato ulteriori oneri per suini e pollame. Un orientamento di cui ci auguriamo ora tenga conto anche la commissione Ambiente che dovrà esprimersi a fine maggio”.

Cosa pensa invece delle alternative vegetali alla carne? Per esempio burger e cotolette di soia.

“Penso che bisognerebbe usare il nome corretto per gli alimenti. Perché chiamarli burger e cotolette? Da un lato si attacca la carne, dall’altro si usano e si ‘sfruttano’ i nomi di prodotti fatti con la carne e si gioca sull’ambiguità. I consumatori hanno invece il diritto di essere informati in maniera corretta e trasparente su cosa stanno acquistando. La carne è carne, il latte è latte ed entrambi vengono dalla zootecnia, non da vegetali o da laboratori. E la parola ‘hamburger’ o burger non può essere utilizzata per qualsiasi cosa, ma solo per prodotti realizzati con la carne”. 

Come è possibile che nella grande distribuzione i piccoli allevatori abbiano ancora uno spazio così limitato?

“In generale i piccoli produttori possono incontrare difficoltà nel rapporto con la Gdo. Vengono affrontati costi che rischiano poi di non essere ammortizzati. Sono realtà che vanno sostenute. La distribuzione va incentivata a utilizzare sempre più produzioni di piccoli agricoltori e allevatori che rispettano l’ambiente, che garantiscono qualità e che sono un valore aggiunto per tanti territori, specie nelle aree interne e di montagna”.

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Silvia Di Pasquale