Domattina, lunedì, Marine Le Pen si siederà sul banco degli accusati in un’aula del tribunale parigino costruito da Renzo Piano. Dovrà rispondere delle accuse di appropriazione indebita di fondi pubblici, ricettazione e complicità con altri.
Da noi, due articoli del codice penale si apparentano a questi reati: indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Le Pen rischia una pena compresa fra i 5 e i 10 anni di reclusione e soprattutto una pena di ineleggibilità: il risultato delle prossime presidenziali francesi è appeso anche all’esito di questo processo.
Insieme con lei sono imputati il suo partito, come persona giuridica, e altri 27 esponenti dell’estrema destra, fra cui molti leader. Tra loro c’è anche Jean-Marie Le Pen, padre di Marine. Lui non sarà in aula: a 96 anni, le sue facoltà cognitive sono quasi del tutto svanite, tanto che non ricorda nemmeno di essere arrivato al ballottaggio nelle presidenziali del 2002.
All’origine del processo un’indagine del Parlamento europeo aperta più di dieci anni fa e ostacolata in tutti i modi dal Rassemblement National (Rn). Secondo l’accusa, che sembra avere a disposizione prove sostanziose, il partito lepenista avrebbe finanziato con i fondi dell’europarlamento gli stipendi dei suoi funzionari. In pratica, i deputati europei assumevano assistenti parlamentari che non lavoravano per loro, ma per il partito in Francia.
Gli statuti comunitari vietano espressamente manovre del genere: le somme versate ai parlamentari non possono servire a finanziare attività politiche nazionali. Il danno per l’europarlamento, che si è costituito parte civile, è stato calcolato in 6,8 milioni. Un altro partito transalpino, il centrista Modem, è già stato condannato per fatti analoghi.
Sapendo di non poter contestare molte delle prove in mano all’accusa, Marine Le Pen tenterà di difendersi sul piano politico, senza però riprendere il vecchio ritornello del governo delle toghe. Una scelta che avrebbe fatto lei stessa (in fondo, di professione, è avvocato): giorno dopo giorno sarà lei a commentare la seduta processuale e non i suoi legali.
E’ chiaro che la scelta politica dà per scontata la condanna penale, ma serve per evitare che la pena sia assortita con l’ineleggibilità. E’ questa la posta in gioco del processo e il terrore della leader di estrema destra: principale favorita, allo stato attuale dei fatti, nella corsa all’Eliseo, la sua candidatura nel 2027 potrebbe essere cancellata dalla sentenza.
Se i politici, in tutti i paesi occidentali, riescono quasi sempre a farla franca malgrado le condanne, non possono superare lo sbarramento di una privazione dei diritti civili. E secondo alcuni giuristi, una legge del 2017 obbliga i giudici ad applicare la pena dell’ineleggibilità quando si tratta di condanne contro la probità di un eletto. Il processo durerà due mesi, la sentenza è attesa all’inizio del 2025. Poi ci sarà il probabile appello: i due calendari, quello della giustizia e quello della politica, andranno a braccetto.
Le Point