Medio Oriente in mezzo al guado. È in una situazione di transizione difficile e rischiosa. Un punto di incrocio di molti fattori: l’apertura di Hamas sugli ostaggi (ma 32 sarebbero morti, dice il New York Times), Blinken al quinto tour nell’area calda, il tentativo di mediazione dell’emiro del Qatar, l’ostinato niet di Netanyau, i palestinesi alla fame, i familiari dei prigionieri del 7 ottobre imbufaliti, la rabbia di Bagdad colpita, le milizie filoiraniane sempre più aggressive (Houthi in testa), Biden in campagna elettorale, Cina e Russia contestatrici alle Nazioni Unite, gli ayatollah di Teheran indecifrabili e pericolosi. C’è dunque il rischio destabilizzazione, al netto degli ultimi risultati diplomatici? Calma. Diffidiamo delle conclusioni affrettate. Comunque vanno considerati alcuni punti di novità.
1) LA CASA BIANCA COSTRETTA A RISPONDERE
I tre morti statunitensi (attacchi a basi americane) ha costretto Biden a rispondere subito e duramente con una pioggia di missili. Colpa della campagna elettorale e delle relative difficoltà. Temendo accuse di debolezza, ha spedito caccia e bombardieri in Siria e Iraq. Scelta pericolosa: Bagdad, furiosa, sta pensando di avvicinarsi a Teheran. Se questo non fosse un anno elettorale, Joe avrebbe con ogni probabilità calcolato e agito diversamente.
2) LE MILIZIE FILO-IRANIANE NON MOLLANO
Gli Houthi in particolare. Il gruppo armato dello Yemen (in prevalenza sciita zaydita) vuole alzare il tiro. Ha messo nel mirino addirittura i cavi sottomarini internet occidentali; nei tubi in fibra passa il 17% del traffico web mondiale. Un salto di qualità che ha allarmato le aziende di mezza Europa. Mentre proseguono gli attacchi alle navi commerciali nel Mar Rosso. Assalite mercoledì 7 la nave statunitense “Star Nadia” è la britannica “Morning Tide”.
3) LE TRUPPE AMERICANE NON LASCERANNO L’IRAQ
L’ultima volta che c’è stata una partenza totale delle forze americane dall’Iraq, l’Isis ha stabilito lo Stato Islamico. Quindi il governo iracheno sa bene che la presenza americana gli serve sia in fase antiterrorismo che anche come contrappeso alla ingombrante presenza iraniana. Dunque è da escludere una partenza totale degli americani da Bagdad. Ma se si va avanti così la posizione del premier Al Sudani, primo ministro dall’ottobre 2022, potrebbe indebolirsi e portare ad una partenza forzata delle truppe statunitensi.
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