In Emilia-Romagna l’affluenza è stata del 46,42%, venti punti percentuali in meno rispetto al 2020, quando votò il 67,27%. In Umbria ha votato il 52,3%, dodici punti in meno rispetto al 2020. Allora si recò alle urne il 64,69%. In Liguria, qualche settimana fa, l’affluenza finale è stata del 45,96%, otto punti in meno rispetto al 2020, quando si affacciò alle urne il 53,42%.
In Italia, d’altronde, la partecipazione elettorale è in calo da decenni. Qualche dato: il 2 giugno del 1946, un altro mondo, al referendum “repubblica o monarchia”, votò circa l’89,1% degli aventi diritto. Nel 1976, alle politiche, votò il 93,4%. Poi, dagli anni ’80, prima la lenta discesa, poi la picchiata: nel 1979 il 90%, nel 1983 l’88,4%, nel 1987 l’88%, nel 1992 l’87,3%, nel 1994 l ‘86,1%, nel 1996 l’82,9%, nel 2001 l’81,4%, nel 2006 l’83,6%, nel 2008 l’80,5%, nel 2013 il 75,2%, nel 2018 il 72,9% e nel 2022 il 63,9%.
Insomma, in Italia ormai non vota più nessuno o quasi. Forse i partiti italiani, invece di esultare per la conquista di un Comune, di una Regione o finanche di un Governo, con un tasso di partecipazione elettorale così basso, più che stappare bottiglie di champagne dovrebbero iniziare a interrogarsi, seriamente, su cosa sta accadendo in questo misero Paese. Ma il problema sta proprio qui, in quel “seriamente”. Quel che è certo, però, è che, se si continuerà così, nel prossimo futuro basteranno un centinaio di voti per essere eletti. Sempre se si riuscirà a trascinare controvoglia questi cento disgraziati al seggio.