Romano Prodi faceva e diceva le stesse cose di Giorgia Meloni ma nessuno gridava allo scandalo.
Romano Prodi ha dichiarato al mondo che Giorgia Meloni è succube della Ursula Von der Leyen; Giorgia ha replicato a muso duro che il professore era stato un leccapiedi dell’Europa per la svendita dell’Iri e il maldestro ingresso nella moneta unica. Eppure, tra i due personaggi esistono numerose affinità elettive.
Prodi è stato un precursore della Meloni in materia di immigrazione. A seguito della fuga su barcone di 120 profughi albanesi che scappavano da un paese in guerra, il governo inviò la corvetta Sibilla per contrastarne l’approdo sulla costa italiana. Si verificò uno speronamento e il 28 marzo 1997 perirono un centinaio di persone.
Le Nazioni Unite intervennero ma nessuno evocò il diritto all’accoglienza e le leggi del mare, che esistevano da sempre. Prodi, nel corso della trasmissione Ballarò, dichiarò con il piglio sicuro dello statista: “La sorveglianza dell’immigrazione clandestina attuata anche in mare rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza e nel rispetto della legalità che il governo ha il dovere di perseguire”.
Prodi e i migranti
Sono le stesse parole usate dalla Meloni, una ventina d’anni dopo. Bisogna però segnalare che all’epoca di Prodi, il “valore” della libera circolazione dei “disperati della terra” non era ancora diventato interesse economico organizzato.
Nel costituire il Centro di accoglienza in Albania, la Meloni non ha considerato che la “giurisprudenza” praticata nelle Aule di giustizia ne avrebbe impedito l’utilizzo e che in Italia vige ancora la preminenza, assoluta e indiscussa della Magistratura. Si è trattato dunque di un errore politico della Meloni, che certamente Prodi non avrebbe commesso.
Prodi ha saputo contrastare i giudici con ben diversa determinazione. Quando i gruppi ambientalisti stavano per bloccare l’impianto di Acerra, le ordinanze di Prodi permisero all’inceneritore di ottenere il CIP 6 e l’autorizzazione a bruciare il rifiuto indifferenziato. Per impedire gli arresti a catena di commissari e amministratori, i reiterati sequestri dell’impianto e gli atti di guerriglia degli agitatori locali, Prodi militarizzò il territorio e inviò i soldati: l’impianto sarebbe stato realizzato nonostante gli interessi dei centri mafiosi.
Parliamo ora di Prodi il “privatizzatore”. Chiariamo subito che la liquidazione dell’Iri è avvenuta in forza dell’accordo avviato nel 1993 tra l’allora ministro degli esteri Beniamino Andreatta e il commissario UE alla concorrenza Karel Van Miert. Prodi si limitò ad assolvere tutti gli impegni necessari per entrare al primo turno nella moneta unica che era il fulcro della politica di governo.
Mani pulite
Per giudicare con obiettività l’operato di Prodi bisogna ricordare il clima di vero e proprio terrore durante gli anni 1992/1994, quando un’accusa a esponenti politici o delle PPSS equivaleva ad una condanna. Lo stesso Prodi fu sentito da Di Pietro come persona informata dei fatti, una situazione che portava spesso all’arresto. L’allora presidente dell’IRI riuscì a cavarsela con grande abilità anche grazie alla fama di uomo onesto che non era stata mai messa in discussione.
Nel gioco di Mani pulite si erano inseriti i grandi gruppi finanziari e industriali i quali disponevano di un’arma decisiva per farsi rispettare: la stampa. Nessuno poteva opporsi alla cosiddetta “redazione giudiziaria unificata”, un afflusso di notizie, opportunamente filtrate e dirette, di grande effetto per l’amplificazione di alcuni aspetti delle indagini, e devastanti per gli inquisiti, la maggior parte dei quali sarebbe stata assolta nei processi.
Quando le direzioni del Corriere della Sera e della Stampa si erano collegate a La Repubblica e all’Unità, si realizzò quella voce unica dell’”opinione pubblica” che da una parte avrebbe sostenuto a spada tratta le inchieste e dall’altra avrebbe portato a fondo l’offensiva a favore delle privatizzazioni.
Tutto questo avvenne nonostante che tra il 1990 e il 1996 i quotidiani nazionali totalizzassero un calo delle vendite di oltre il 12%. Si trattò dunque di una lotta tra èlites senza esclusione di colpi, lotta inseritasi sul bubbone del finanziamento illecito della politica. La gente era portata a condannare senza appello i politici ma non sembrava chiedersi quanto gli imprenditori ci avevano guadagnato da quel sistema.
Sta di fatto che dal 1992 alla caduta del governo Prodi nell’autunno 1998, la gestione degli affari economici e finanziari, nonché la ristrutturazione industriale per mezzo delle privatizzazioni, sono state nelle mani di un ristretto gruppo di tecnocrati, liberati dal peso delle norme sulla contabilità pubblica, affiancati da una pletora di consulenti ed esperti che, in otto anni, hanno incassato dallo Stato 350 miliardi di prebende.
Si deve alla personalità di alcuni boiardi, capaci di tutelare gli interessi nazionali, se il paese ha conservato una parte degli asset industriali destinati alla liquidazione dal ceto politico. Enrico Mattei era stato messo dal governo alla guida dell’Agip, per chiuderla nell’interesse delle “sette sorelle”. Dalla sua ribellione agli ordini dell’azionista pubblico è derivato l’ENI. Fabiani impedì lo spacchettamento di Finmeccanica che era diventata il secondo produttore mondiale di sistemi per l’automazione industriale.
All’avvento del governo Ciampi si venne a stringere un accordo. Il PDS avrebbe dato mano libera alla grande borghesia finanziaria e l’establishment giornalistico avrebbe appoggiato la battaglia dei “progressisti”. Il patto prevedeva da un lato una sorta di fideiussione e di sdoganamento dei post-comunisti sul piano internazionale (Occhetto alla Nato, Occhetto alla City) e l’appoggio della grande stampa padronale; dall’altro lato c’era il via libera per acquisire le grandi società pubbliche a prezzi stracciati. Con le decapitazioni dei vertici delle PPSS il sistema era in ginocchio: non poteva opporre alcuna resistenza ai progetti di privatizzazione che il governo Ciampi e il ministero del Tesoro si apprestavano a realizzare.
Da queste circostanze era nata l’occasione del secolo per i privati: i governi tecnici degli anni novanta, figli di Mani pulite, si erano mossi in modo opposto al Mussolini degli anni Trenta, il quale aveva tolto ai privati seguendo le indicazioni di quei veri “grand commis” dello Stato che furono Beneduce e Menichella.
Diventato presidente del Consiglio, d’Alema così criticò il suo predecessore: “Prodi pensava che, centrato l’obbiettivo del risanamento e dell’ingresso nell’euro, il meccanismo dello sviluppo si sarebbe messo in moto da solo. Sbagliava. Il meccanismo si è inceppato e non ripartirà senza una coraggiosa azione pubblica”. L’Italia sarebbe diventata per sempre una preda e mai più un cacciatore. E’ questa la vera storia delle nostre partecipazioni pubbliche che la Meloni dovrebbe finalmente contrapporre ai capitoli della “storia bugiarda” sull’Italia contemporanea.
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull’efficacia dei provvedimenti adottati dai “privatizzatori”. Il giudizio segnala, sì, un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato; “un recupero che, tuttavia, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza, quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ecc., ben al di sopra dei livelli di altri paesi europei. A questo aumento, inoltre, non ha fatto seguito alcun progetto di investimento, volto a migliorare i servizi offerti”. Più secco è il giudizio sulle procedure di privatizzazione così stigmatizzate: “L’elevato livello dei costi e il loro incerto monitoraggio, la scarsa trasparenza delle procedure e della ripartizione delle responsabilità”.
Il documento aveva omesso di rilevare che in tutte le aziende capogruppo pubbliche, sedeva un rappresentante della Corte dei Conti il quale dava un giudizio sull’affidabilità dei bilanci con una propria Relazione annuale. Non risultano spunti critici su quei bilanci da parte della Corte dei Conti. Si sa, i magistrati non sono mai responsabili.
L’ultimo ruolo svolto da Prodi è stato quello di “federatore”, che tuttavia non può essere assunto ad esempio di buona politica e che oggi viene riproposto. La Meloni, che si è abbeverata alla scuola di Giorgio Almirante, un grande politico della Prima Repubblica, per diventare statista dovrebbe avere imparato la lezione di Prodi i cui governi erano caduti per le bordate del fuoco amico.
La stessa Meloni dovrebbe procedere al più presto ad eliminare le scorie pericolose dell’attuale coalizione di governo. Come può pensare di continuare a prendere voti nelle Regioni del sud avallando la cosiddetta autonomia differenziata? Infine, questa donna che molti osservatori internazionali ci invidiano, dovrebbe anche capire che la politica degli annunci è improduttiva, perché il potere vero ed efficace delle istituzioni, quello che suscita rispetto, deve stare lontano dai riflettori.
In conclusione, possiamo ritenere che esistono alcune affinità elettive tra Prodi e la Meloni il cui primo ruolo, al di fuori del palcoscenico mediatico, è quello di mettere fine alla guerra civile in atto: tra nord e sud, ricco e povero, impiegato e lavoratore autonomo, sanità pubblica e privata. Il Paese invecchia e sta perdendo l’ottimismo per il futuro. L’unica prospettiva seria è che la Meloni si allei con la sinistra riformista per realizzare le necessarie modifiche di una Costituzione obsoleta, che impedisce il rinnovamento del Paese.