Alberto Musy, Vittorio Feltri: “Non basta sospetto del pm per ergastolo”

Alberto Musy, Vittorio Feltri: "Non basta il sospetto di un pm per condannare all'ergastolo"
Alberto Musy (LaPresse)

ROMA – “Non basta il sospetto di un pm per condannare all’ergastolo” è il titolo dell’articolo a firma di Vittorio Feltri sulle pagine de Il Giornale:

Un altro giallo rischia di essere risolto male o addirittura di non esserlo per nulla. La vicenda a suo tempo (marzo 2012) fece scalpore, poi, come sempre accade a causa dell’incalzare delle notizie (le nuove scacciano le vecchie), fu quasi dimenticata. Adesso torna d’attualità perché è cominciato il processo. Riassumiamo i fatti per comodità del lettore.

Una mattina Alberto Musy esce di casa, a Torino, per accompagnare i figli a scuola. Subito dopo rientra e s’imbatte in un Tizio con un casco, il quale gli spara tre colpi di pistola, tutti a segno. Il professore, per quanto gravemente ferito, riesce a raccontare alla moglie (scesa in suo soccorso) alcuni dettagli dell’agguato. Ricoverato all’ospedale, entra in coma e non ne esce più. Nell’ottobre dell’anno successivo, muore.

Frattanto gli investigatori si persuadono che l’aggressore sia Francesco Furchì, un faccendiere di origine calabrese, che avrebbe avuto dei dissapori col docente, il quale gli avrebbe negato il favore di introdurlo nella politica locale. Da sottolineare che Musy era consigliere comunale, eletto nelle liste dell’Udc. Furchì fu arrestato, benché su di lui non fossero state raccolte prove, ma soltanto qualche indizio, oltre al movente, però troppo debole per spingere un uomo a premere il grilletto. Un particolare: la pistola non è stata rintracciata.

Inizialmente i sospetti erano piovuti su vari individui, in seguito trascurati poiché ciascuno di essi fornì un alibi inattaccabile. Rimaneva scoperto, invece, il calabrese, incapace di spiegare agli inquirenti dove fosse la mattina del delitto. Di qui l’arresto e il trasferimento in carcere, dove l’uomo si è ammalato. E veniamo all’udienza in Corte d’assise, nel corso della quale il Pm, chiedendo la condanna dell’imputato, ha pronunciato una requisitoria poco convincente, almeno per noi che, pur non essendo tifosi degli assassini, preferiamo che essi siano dichiarati colpevoli sulla scorta di elementi concreti, e non di congetture (…)

Secondo il magistrato «c’è chi è stato punito per molto meno». Bastano queste osservazioni a creare i presupposti per infliggere il carcere a vita a un imputato? Non ci sembra. Come si fa a dire, in sostanza, che Furchì ha ucciso Musy perché non è stato identificato un altro omicida? Eventuali carenze delle indagini non possono ricadere sull’unico soggetto che in teoria potrebbe avere sparato. Il ragionamento non regge. Quando un Pm afferma: «Se non è stato lui, chi?» significa che la sua idea si fonda su un’ipotesi e non su una certezza. Non tocca all’accusato, per salvarsi, indicare un colpevole. È compito della Procura.

C’è di più. Dove sta scritto che un Tizio con un casco rudimentale e una scatola legata con lo spago debba per forza essere Furchì? Qual è il filo logico che conduce a simile conclusione? Crediamo che non sia lecito puntare il dito su un cittadino solo perché gli si attribuisce un atteggiamento stravagante. Occorrono prove, non supposizioni e neppure deduzioni. Quando la giustizia si affida ai teoremi, invece che ai fatti, il più delle volte fallisce o lascia pensare che alimenti la probabilità di sbagliare. In effetti gli errori giudiziari non sono rari; non è il caso di aumentarne il numero.

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