L’Angola mette al bando l’islam, Maurizio Stefanini su Libero

L’Angola mette al bando l’islam
L’Angola mette al bando l’islam

ROMA – Svolta in Angola, nel paese a maggioranza cattolica il governo ha deciso di mettere al bando l’Islam, secondo i giornali locali sarebbero 78 le moschee chiuse.

L’articolo di Libero:

È vero che l’Angola sta diventando il primo Paese al mondo a mettere al bando l’Islam? Da una settimana l’accusa – partita dalla denuncia di un’associazione islamica – rimbalza sui media di diversi paesi musulmani, a partire da al-Jazeera. Il governodi Luandaè orapartito alla controffensiva, e in una nota ufficiale diffusa anche dall’ambasciata italiana ha detto di «aver appreso con preoccupazione la notizia secondo cui l’An – gola avrebbe vietato l’Islam e distrutto le moschee». Settantotto moschee chiuse e 10 bruciate, sono state per la precisione le cifre rese note. Falso, dice. «Il governo angolano smentisce tali affermazioni che mirano a scopi a noi oscuri, minando l’immagine dell’Angola».

Nessuna moschea sarebbe stata distrutta, nessuna persecuzione nei confronti degli islamici sarebbe stata intrapresa. La più clamorosa conferma alla difesa del governo sembra venire dall’imam di Luanda Adama Diakitè, responsabile della moschea più antica del paese e leader della Fondazione Islamica dell’Angola (Fis). «Ciò che è stato scritto è una bugia, al-Jazeera la smetta perché sta infangando il nome dell’Angola a livello internazionale», ha sbottato. «Chi dice queste cose è un bugiardo». Va detto che quando una minoranza di unpaese discusso nega di essere repressa, è sempre da verificare se la smentita sia veramente una smentita o non piuttosto una conferma. Lo stesso imam Diakitè quando termina il suo intervento con l’asserzione che «quelle moschee erano irregolari e il governo ha fatto bene a fare il suo lavoro» di fatto conferma che qualche cosa è successo.

Anche la smentita resa nota dall’ambasciata in Italia finisce per confermare qualcosa, quando chiarisce che la presenza dell’Islam in Angola è un fatto recente e che la sua legalizzazione dipende dal rispetto dei requisiti espressi nella legge n.02/04. C’è dunque una Comunità Islamica dell’Angola, sigla Cisa e diversa dalla Fis, e che si è vista rifiutare il riconoscimento, come successo a altre 179 confessioni. Ma il fatto è, dice la nota, che molti clandestini fingendo di essere commercianti avevano trasformato illegalmente magazzini in luoghi di culto, mentre «il governo angolano ribadisce che l’eser – cizio della libertà religiosa debba avvenire nel pieno rispetto della legge», anche se c’è la promessa che «nessun cittadino angolano o di confessione islamica straniera sarà mai molestato per la sua fede». Il governo puntualizza inoltre che «la richiesta di un gruppo è stata rigettata ma altri otto gruppi di confessione islamica sono inattesa di autorizzazione» e limita il numero delle moschee distrutte a quattro. Probabilmente, però, quel che sta accadendo in Angola va oltre le normative anti-jihad che in Europa si sono spesso tradotte anche in norme anti-velo, e sta piuttosto sulla linea di quei molti Paesi africani che rilasciano una lista di culti ammessi e tendono a discriminare chi sta fuori dalla lista; anche se non sempre arrivando agli estremi dell’Eritrea, dove chi non è musulmano, copto, cattolico o musulmano sunnita rischia la galera. «Con il fine di combattere la proliferazione di nuove sette e il fondamentalismo religioso», spiega l’Esecutivo. E c’è un ministro, quello della Cultura Rosa Cruz, che ha detto espressamente di voler proibire l’islam. La legge vigente in effetti prescrive che per essere riconosciuta dallo stato una fede deve avere almeno centomila fedeli in 12 delle 18 province e i musulmani non oltrepassano i 90mila, per lo più divisi. Ma fino a poco tempo fa non ce n’era nessuno, e nella società, cristiana al 95%, c’è una diffusa paura per un possibile contagio integralista. Una paura su cui potrebbe speculare per acquisire consensi il governo: post-comunisti che dal 1992 hanno accettato formalmente pluralismo e mercato, ma mantenendo nei fatti il controllo di tutte le leve del potere politico e economico.

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