Armando Spataro: “Un capo dirige non comanda”

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Armando Spataro

ROMA – Lunedì 30 giugno Armando Spataro si è insediato come nuovo procuratore della Repubblica a Torino, al posto di Gian Carlo Caselli. Nel suo discorso, tratteggiando il ruolo del procuratore e i suoi giusti rapporti con gli aggiunti e i sostituti, ha usato parole in controtendenza rispetto alla lettera di Napolitano al Csm e alla successiva archiviazione del “caso Milano”, ma anche alla gestione della Procura ambrosiana da parte di Edmondo Bruti Liberati.

Il Fatto Quotidiano ne pubblica alcuni stralci.

Poche parole per illustrare la mia concezione del ruolo di Procuratore della Repubblica, cui cercherò di ispirare la mia guida della Procura di Torino (…). Convinzioni che ho espresso per iscritto sin dall’ottobre del 2007 in occasioni di Incontri di studio del Csm (…). Perché non accetto la definizione di “Procuratore Capo della Repubblica”? Non solo perché essa non esiste nel nostro ordinamento, ma anche perché, indipendentemente dalle dimensioni dell’ufficio, un Procuratore della Repubblica non può, a mio avviso, ispirarsi a una concezione gerarchica dell’esercizio delle sue funzioni: egli deve operare in piena armonia con tutti i componenti dell’ufficio stesso, non solo con i Procuratori Aggiunti, di cui va valorizzato appieno il ruolo co-organizzativo, ma anche con i Sostituti, rispettandone autonomia, professionalità e dignità (…). Ciò, naturalmente non comporta che il Procuratore rinunci ai poteri riconosciutigli in tema di organizzazione dell’ufficio e di indirizzo della sua azione secondo criteri uniformi, ma che lo faccia secondo un’interpretazione “costituzionalmente orientata” di quanto in proposito previsto dalla legge. L’espressione “costituzionalmente orientata” è oggi talmente diffusa da essere diventata quasi una formula di stile, ma può ben trovare concreta attuazione proprio rispetto alle norme in tema di organizzazione di una Procura della Repubblica, l’ufficio giudiziario oggi più esposto al rischio di guida verticistica. (…)

Mi riesce impossibile pensare, che i titolari dell’azione penale siano solo i 136 Procuratori della Repubblica italiani, ciascuno con un nome e un cognome, e non i 136 uffici del Pm, ciascuno con i magistrati che li compongono. Del resto, se la norma dovesse intendersi letteralmente, ne deriverebbe che il procuratore dovrebbe personalmente sottoscrivere tutte le richieste con cui si concretizza l’esercizio di azione penale! Ma se l’obbligatorio esercizio dell’azione penale è riferibile all’Ufficio del Pm, è chiaro che esso passa attraverso il rispetto delle regole interne (…).
Ecco, allora, che non si devono ritenere superate le regole (derivanti anche da delibere consiliari) che impongono al Procuratore di adottare decisioni motivate e coerenti nell’organizzazione dell’ufficio, specie ove si tratti di provvedimenti che si discostino dal progetto organizzativo in vigore. Va cioè adottato un modulo organizzativo che, fondato sul rispetto pieno della dignità e dell’autonomia professionale degli Aggiunti e dei Sostituti, consenta loro di proporre osservazioni – a loro volta rispettose delle competenze del Procuratore – sui provvedimenti non condivisi che li riguardino, soprattutto in tema di assegnazione e revoca nella trattazione degli affari penali o di improvviso mutamento dei relativi criteri.

Non v’è dubbio, a tal proposito, che le risoluzioni o delibere del Csm del 12 luglio 2007, del 21 luglio 2009 e del 21 settembre 2011 contengano le linee cui un Procuratore deve ispirarsi nell’organizzazione dell’ufficio, pur essendo evidente – ed è lo stesso Csm ad affermarlo – che occorre analizzare l’esperienza in corso in vista di eventuali ulteriori indicazioni. Proprio quelle linee guida, però, danno luogo a un irrinunciabile “sistema di garanzia” per i singoli magistrati delle Procure (…). Insomma, se in una Procura della Repubblica vige un progetto organizzativo, discusso dall’Ufficio e deliberato secondo l’iter ordinamentale, le regole che vi sono previste vincolano tutti a partire dal Procuratore. Naturalmente, occorre una certa elasticità nella loro interpretazione, che però non può essere confusa con l’arbitrio. Se mai mi dovesse capitare di dover derogare, senza consenso degli interessati, a una regola interna, ad esempio in tema di assegnazione e/o revoca di assegnazione degli affari penali, lo farò con provvedimento motivato, sia per consentire le osservazioni dei sostituti, come prevede la legge, sia perché considero singolare e impraticabile la possibilità di una “motivazione implicita” (…).

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