Berlusconi 1994: quando sorprese tutti, grazie a Dell’Utri – Pino Corrias, Fatto

Berlusconi 1994: quando sorprese tutti, grazie a Dell'Utri - Pino Corrias, Fatto
Berlusconi con Marcello Dell’Utri (LaPresse)

ROMA – Pino Corrias sul Fatto quotidiano ricostruisce l’atmosfera del marzo 1994, quando Silvio Berlusconi, che rischiava il fallimento e la galera, vinse le elezioni politiche sorprendendo tutti: direttori di giornali, analisti politici, creditori.

Fondamentale fu Marcello Dell’Utri, l’uomo che trasformò “la Fininvest in un partito e l’audience televisiva in elettorato”, portando per la prima volta un imprenditore alla presidenza del Consiglio.

Erano gli anni di Tangentopoli, a Milano:

«dove noi cronisti annotavamo, dopo i 5 mila arresti di Tangentopoli, la quotidiana carognata degli automobilisti che riconoscendolo per strada sputavano in faccia al giovane Bobo Craxi, colpevole di niente. E assistevamo increduli alla irresistibile ascesa di Umberto Bossi che sputava anche lui, ma solo ire secessioniste, contro “i porci di Roma”.

Di quasi nulla si accorgevano gli eleganti narratori della bella primavera romana, politici e giornalisti protetti dagli eterni velluti dei Palazzi, che avevano già assorbito gli sfracelli del Nord con un’alzata di spalle, archiviandoli come suoni gutturali dei barbari. E il nuovo potere dei magistrati neanche li impensieriva, persuasi com’erano che il vuoto in politica non poteva esistere: le foto segnaletiche dei vecchi politici non sarebbero state sostituite, semmai truccate con qualche artificio, la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto avrebbe perfezionato il compromesso storico, la Dc e i socialisti erano pronti a cambiare pettinatura, qualche mariuolo si sarebbe offerto di pagare il conto, e tutto sarebbe tornato come prima.

Il mio ex direttore Paolo Mieli, appena passato al Corriere, pronosticava che Berlusconi avrebbe incassato al massimo il 10 per cento dei voti per poi affidarli a Francesco Cossiga esperto di labirinti romani: “Cosa volete che ne sappia Berlusconi di Palazzo Chigi?” diceva in riunione, rasserenando tetre avvisaglie di imminenti sfracelli che filtravano dal mondo reale. Il suo giovane allievo Marcello Sorgi, responsabile romano de La Stampa, aspettava “il sicuro ritorno di De Mita“, o al massimo del suo amato Nicola Mancino. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica , si limitava a prevedere l’insuccesso del “ragazzo Coccodè”. Mentre l’altro genio della politologia, Ernesto Galli della Loggia, rassicurava che quello di Berlusconi “era un partito di yuppies” che non conteneva nulla delle speranze, dei bisogni, delle idealità “della politica nobile”».

Berlusconi, in effetti, era sull’orlo del baratro:

«E l’impero di Silvio su quale cornicione stava? Sul più alto, sul più pericoloso. Nel tetro villone di Arcore, dove ancora aleggiava come una premonizione il fantasma della marchesa Casati Stampa distrutta dalle ossessioni sessuali del marito, Berlusconi stava respirando da molti mesi il rischio incombente. Fininvest stava per crollare sotto il peso dei debiti: 7 mila miliardi di lire, 4,2 lire di debito per ogni lira di capitale. Le banche più esposte – Monte Paschi, Banca di Roma, Bnl, Cariplo, Comit – avevano imposto Franco Tatò al vertice del Biscione, come garanzia del debito. E Tatò, dopo aver dato un’occhiata alla voragine dei conti aveva sentenziato: “Dobbiamo portare i libri in tribunale“.

Berlusconi, che sa tutto di quello che c’è scritto e (specialmente) non c’è scritto sui libri contabili, non ci pensa proprio. Nei 24 mesi appena passati ha visto il fuoco di Tangentopoli divorare uomini, carriere, aziende, patrimoni, partiti. Ha visto la macchina del Palazzo di Giustizia di Milano inghiottire un mondo e restituirlo in pezzi. Il suo mondo. Quello di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti che lo hanno coccolato nella bambagia. Di Oscar Mammì, repubblicano che gli ha cucito una intera legge televisiva a sua misura, tre reti Fininvest contro tre reti Rai. Di tanti altri soldatini – da Giorgio La Malfa a Francesco De Lorenzo – che pretendevano e incassavano come fossero generali.

Da sei mesi aveva visto con chiarezza le alternative: consegnarsi alle indagini dei magistrati, sperando di uscirne vivo. Ma per farlo avrebbe dovuto sciogliere fin troppi misteri di bilancio del suo impero, a cominciare dai primi miliardi spuntati dalla Svizzera a metà degli anni Settanta, quando Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, veniva a fargli visita, con quell’altro mafioso, Vittorio Mangano che si sarebbe installato per anni nel villone a guardia dei soldi e della incolumità dei figli, Marina e Pier Silvio. Oppure resistere, consegnare una rete alla sinistra postcomunista, come gli consigliavano Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo, per poi trattare la sopravvivenza con il nuovo potere politico. “Si è sempre fatto così, guarda la Rai” gli ripetevano i suoi colonnelli nei consigli di guerra del lunedì pomeriggio. Tranne uno, che da molti mesi gli diceva: “E noi faremo diverso”».

L’uomo della svolta è un vecchio amico di Berlusconi:

«Si tratta di Marcello Dell’Utri, palermitano, che da un decennio guida i mille venditori di Publitalia, organizzati regione per regione, città per città, riempie di spot le reti, fattura 2.500 miliardi di lire l’anno, organizza convention con migliaia di imprenditori, conosce i gusti, i sogni, i bisogni, le idealità degli italiani molto meglio di tutti i Galli della Loggia che galleggiano nel loro inchiostro. Dice: siamo lo scrigno dei desideri, abbiamo i soldi, le star televisive, i nostri capi area, i club del Milan che sono il doppio delle sedi Dc. Se siamo orfani dei partiti che ci proteggevano le spalle, è venuto il momento di tutelarci da soli.

Propone l’impensabile, trasformare la Fininvest in un partito e il pubblico televisivo in un elettorato. Il Dottore mette in scena un ponderoso tormento, o almeno ce lo racconterà: “Non dormivo la notte. E qualche volta, sotto la doccia, piangevo”. Poi decide, si parte. La rumba comincia a gennaio, con il messaggio urbi et orbi “Questo è il Paese che amo”.

[…] Gli avversari in campo sono già metà della sua vittoria. Mino Martinazzoli, fuoriclasse della vecchia guardia democristiana, fuma, legge, fa politica, Berlusconi nessuna delle tre cose, gli italiani non hanno dubbi a scegliere tra i due. Achille Occhetto, traghettatore del post comunismo, veste giacchette di tweed marroncine. Ha i baffi, il ciuffo, ma passando (e parlando) non lascia traccia. Bossi lo chiama “paperello”.

Nell’unico confronto tv con Berlusconi inciampa parlando della sua piccola barca a vela. Silvio (che di barche ne ha una dozzina) lo trafigge: “Meno male che lei ha il tempo di andare in barca. Io lavoro”. Il quieto Segni, che pure era il trionfatore del referendum per il maggioritario e l’abolizione delle preferenze, ha il suo destino nel nome: Mariotto; fatta la legge elettorale non la capisce, come gran parte dei suoi alleati.

Berlusconi invece la capisce eccome e la incorpora nel suo imbroglio di nuovo marketing politico: alleanza al nord con la Lega secessionista che “si pulisce il culo” col tricolore, e al centro-sud con gli orfani di Almirante, i post camerati guidati da Gianfranco Fini, che davanti al tricolore fanno ancora finta di lacrimare per l’emozione.

Durante la campagna elettorale Berlusconi orienta le sue parole d’ordine secondo la bussola dei sondaggi macinati dalla Diakron di Gianni Pilo. Parla male dei vecchi politici, tanto non gli costa niente. E benissimo dei magistrati, anche si gli costa moltissimo. Promette il taglio delle tasse sotto “la soglia naturale” del 33 per cento. E un milione di nuovi posti di lavoro: “In Italia ci sono 4 milioni di aziende. Basta che una su quattro assuma almeno un giovane e il gioco è fatto”.

Con lui sembra tutto facile, tutto a portata di mano. È monopolista, ma predica il liberismo. Gli va bene l’Europa, il federalismo, l’autarchia.È massone,ma anche unto del Signore. È filo americano, ma fa affari in Russia. È libertino e credente. Ha due famiglie e tre zie suore. Ai suoi alleati dice: “Se vinciamo ce ne sarà per tutti”. Agli italiani: “Sono ricco, non ho bisogno di rubare”».

Quindi, il 27 marzo 1994, arrivò la vittoria:

«Quando si apre il cristallo elettorale, ecco il portento: Forza Italia incassa il 21 per cento dei voti, Alleanza nazionale il 13,5, la Lega supera l’8. Il Polo è maggioranza. La sinistra esce annichilita e sconfitta. Come Napoleone, Silvio è sceso in campo e in tre mesi ha conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile, gli italiani.

Il governo nascerà a maggio, con il voto decisivo di tre senatori a vita – Agnelli, Cossiga, Leone […]. Comincia l’era delle grandi bugie. E della finta opposizione guidata da Massimo D’Alema, la volpe del Tavoliere e della Bicamerale. Qualche anno dopo persino l’inno di Forza Italia verrà accusato di plagio per aver copiato un brano americano, This Is The Moment, tratto dal musical Dottor Jekyll & Mr Hide. La verità si nasconde nei dettagli».

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