ROMA – Poiché Cgil, Cisl e Uil vantano insieme 12,3 milioni di iscritti, sono per definizione una potenza economica. Ogni iscritto paga infatti una tessera e una quota mensile, trattenuta sullo stipendio o sulla pensione, all’incirca l’1%.
Un lavoratore, insomma, si può stimare prudentemente che versi al sindacato in media circa 130 euro all’anno e un pensionato 60. Considerando che i lavoratori iscritti alle tre confederazioni sono 6,3 milioni si tratta di circa 828 milioni, ai quali si sommano altri 360 milioni che arrivano da pensionati e altri iscritti (disoccupati, per esempio). In tutto quasi un miliardo e duecento milioni l’anno che arrivano dai tesserati. Che rappresenta certamente la quota maggiore delle entrate del sindacato.
Scrive Enrico Marro sul Corriere della Sera:
Ma ci sono anche risorse che vengono da finanziamento pubblico, «diretto e indiretto», come scrisse Giuliano Amato nella relazione consegnata al governo Monti nel 2012, che lo aveva incaricato di far luce sul tema per vedere se era possibile tagliare qualcosa. Amato si soffermò su tre voci: i distacchi sindacali nel pubblico impiego, cioè lavoratori che fanno i sindacalisti ma continuano a prendere lo stipendio dall’amministrazione pubblica; i fondi ai patronati, che assistono gratuitamente lavoratori e pensionati in particolare nelle pratiche previdenziali; i fondi ai Caf che si occupano invece di compilare e trasmettere le dichiarazioni dei redditi. L’ex premier concluse che ci sono margini solo sui distacchi nel pubblico impiego, che causano assenze retribuite dal lavoro corrispondenti a 3.655 dipendenti l’anno (uno su 550) per un costo di 113,3 milioni di euro. E guarda caso una delle 44 proposte di riforma della pubblica amministrazione lanciate dal governo Renzi prevede il dimezzamento dei distacchi. Per il resto, Amato suggeriva di non tagliare, né sui patronati né sui Caf, perché svolgono funzioni essenziali (riconosciute da sentenze della Corte costituzionale quelle dei patronati, che inoltre sono finanziati con i contributi versati dalle aziende all’Inps) sia perché entrambi hanno già subito pesanti tagli dei contributi. Ogni anno ai patronati vanno circa 430 milioni di euro. Una somma che si dividono una trentina di sigle, in base all’attività svolta. Certo la parte del leone la fanno i patronati di Cgil, Cisl e Uil, ma ci sono anche gli istituti promossi dai sindacati minori e dalle associazioni delle imprese. Ai Caf vanno invece circa 170 milioni. In questo caso le sigle sono addirittura 80. Il 45% dell’attività viene svolto dai centri di Cgil, Cisl e Uil e degli altri sindacati, il resto dai Caf delle altre associazioni (datori di lavoro, professionisti, organizzazioni cattoliche).
Distacchi, fondi pubblici ai patronati e ai Caf, sono forme indirette di finanziamento, di cui non si trova traccia nei bilanci dei sindacati. Caf e patronati hanno infatti bilanci separati. Ma anche restringendo il campo di osservazione ai sindacati non si troverà altro sui rispettivi siti che i bilanci delle confederazioni nazionali. Non esiste insomma il bilancio consolidato, che tiene insieme tutte le strutture sindacali, di categoria (metalmeccanici, chimici, pubblico impiego, ecc.) e territoriali (regioni, province, ecc.). E parliamo di Cgil, Cisl e Uil, perché se passiamo ai sindacati minori talvolta non esistono nemmeno i bilanci o meglio sono segreti. Basti pensare all’Ugl e forse non è un caso, vista l’inchiesta della magistratura che ha travolto il segretario Giovanni Centrella accusato di appropriazione indebita aggravata. (…)
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