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“Chi di gogna ferisce, di gogna perisce”, Vittorio Feltri sul Giornale

di Gianluca Pace |11 Dicembre 2013 12:08

“Chi di gogna ferisce, di gogna perisce”, Vittorio Feltri sul Giornale

ROMA – “Chi di gogna ferisce, di gogna perisce” scrive Vittorio Feltri sul Giornale: “Prima Maria Novella Oppo, giornalista dell’ Unità , poi Francesco Merlo, editoriali­sta della Repubblica (già del Corrie­re della Sera ). Entrambi messi all’in­dice da Beppe Grillo che li ha «sgri­dati» a modo suo sul proprio blog per aver osato criticare il Movimen­to 5 stelle. Era fatale…”

Leggi l’editoriale:

Vorrei però dire alla collega dell’ Unità di non soffrire esage­ratamente. Può riuscirci. Ba­sta che rifletta: quante volte lei, magari senza rendersene con­to, ha vergato articoli che han­no piagato il cuore altrui? Nel nostro mestiere capita di sba­gliare o di eccedere nelle criti­che. Non dobbiamo pertanto lagnarci troppo se poi alcuni usano contro di noi le stesse ar­mi, sia pure più sgangherate, che noi abbiamo usato contro di loro o contro i loro amici. C’est la vie.
Per Francesco Merlo vale il medesimo discorso. Ho letto ieri il suo amaro articolo: ho ca­pito che le pugnalate da lui rice­vute stentano a rimarginarsi. La prosa, meno brillante del consueto, è una specie di car­tella clinica dello stato d’ani­mo dell’autore. A nulla sono serviti gli sforzi per maschera­re il dolore che viene comun­que fuori da ogni frase.
Conobbi Francesco a metà degli anni Ottanta, quando esordì in redazione al Corriere . Era timido e garbato. Stava se­duto al mitico tavolone alberti­niano, una copia di quello del  Times : ripiano inclinato e lam­pade verdi che illuminavano le Olivetti. Come tutti, anche lui per alcuni anni sgobbò (si fa per dire) a raddrizzare i pezzi dei redattori con diritto di fir­ma, regolarmente invidiati dai passacarte anonimi.
Merlo non tradiva malumo­ri. Semplicemente non parla­va. Per mesi non udii la sua vo­ce. Biondo, perbenino, educa­to, la sua presenza era inavver­tibile. Un giorno lo mandaro­no, causa assenza degli inviati di ruolo,su un servizio. L’indo­mani lessi il reportage e lo tro­vai eccellente, per quanto po­tesse valere il mio giudizio: molto curato, bene impostato, completo, addirittura diver­tente. Pensai: questo qui, se sa­rà messo in condizione di farsi notare, andrà lontano.
L’uomo mi aveva talmente incuriosito da indurmi a inter­rogarlo. Parlava volentieri, con un lieve accento catanese; era un buon conversatore, acu­to e arguto. Anni più tardi, quando ormai me n’ero anda­to da via Solferino, vidi sulla pri­ma pagina del Corriere – diret­tore Paolo Mieli – un suo fon­do. Lo bevvi avidamente e sorri­si soddisfatto. Avevo visto giu­sto: era bravo. Non so perché, a un certo punto Merlo passò al­la Repubblica , e constatai che i suoi articoli erano cambiati: sempre ben scritti, sempre puntuali, rivelavano però una punta di acidità che non so­spettavo potesse fuoriuscire dalla sua penna aggraziata.
Perché dico questo? Sono persuaso che Francesco, forse inconsapevolmente, nutra un rancore per i personaggi ai qua­li dedica i suoi articoli. E che ciò gli abbia procurato qual­che antipatia, ampiamente ri­cambiata, come succede in ca­si simili. Anche lui, quanto la Oppo, si innamora delle paro­le e se ne lascia trascinare. So­no le parole a comandare sulle loro idee e non viceversa, alme­no in alcune circostanze. Nien­te di grave. Siamo tutti faziosi e tutti schiavi di pregiudizi. Il problema è che, seguendo più la convenienza che la logica, pieghiamo le nostre frasi al­l’esigenza intima di essere coe­renti con la linea del giornale piuttosto che con la nostra co­scienza della realtà.
Merlo, come tutti quelli che badano all’estetica scambian­dola talvolta per etica, ha attira­to su di sé molte antipatie. D’al­tronde non si può piacere a tut­ti. Ecco il motivo per cui lo han­no oltraggiato. Se ne faccia una ragione. Dissimuli la sua rab­bia. Sappia che spesso i fischi sono più meritati degli applau­si. L’unico modo per non udirli è infilarsi i tappi nelle orec­chie. In un momento di sban­damento sociale e politico, conviene meditare: siamo al­l’altezza delle nostre ambizio­ni? 

 

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