ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno, lunedì 23 giugno 2014, “Nella Chiesa assediata dai Boko Haram” di Domenico Quirico per La Stampa:
Alla messa del Dio assediato nella Nigeria dei Boko Haram. Non suonano le campane, la domenica, per la messa nel Nord della Nigeria, nel califfato africano degli implacabili islamisti Boko Haram. No, non sono davvero necessarie a convocare, a spronare fedeli pigri: perché qui si nasce prigionieri della propria croce.
Non ci si può persuadere di poterne discendere e illudersi di voltarsi senza più vedere quel segno terribile, come accade a noi. Per quanto lontano ti perda, la realtà ti riconduce indietro, sei di nuovo misericordiosamente precipitato su quel Legno, stendi le braccia, offri le mani e i piedi già trafitti fin dall’infanzia. I meravigliosi cristiani di Abuja, Kano, Jos, Maiduguri! Serenamente tristi, con il cielo negli occhi. E noi che non sappiamo ascoltare, se non distrattamente, i loro gemiti di anime braccate; dovremmo invece ripetere le loro note di una purezza edenica, di una dolcezza infinita, di una lacerante tristezza.
Sì, questa a cui partecipo è, come avviene in questa metà islamica dell’immenso Paese, una messa militarizzata, una messa in territorio di guerra, con i soldati nigeriani che pattugliano l’ingresso, nervosi, dai modi bruschi di affanno. Hanno giubbotti antiproiettile e lugubri divise nere, e incredibili elmetti di un rosso fiammante. Ogni auto che si avvicina al recinto della chiesa è allontanata con urla, minacce di sparare: l’ossessione dell’autobomba.
Eppure arrivano a frotte, i fedeli. Non mi aspettavo di trovarne tanti, in questa terra dove esser cristiano è una colpa che merita la morte. Le donne sfilano negli abiti sgargianti, due ragazze si aiutano a indossare fantastici turbanti del color oro delle miniature medioevali; e bambini, bambini ovunque, per la loro messa separata, dietro il lunghissimo capannone coperto di lastre di lamiera che fa da chiesa. Il capannone è nudo, qualche ventilatore, poche panche e file interminabili di sedie di plastica bianca, con la stinta scritta «proprietà dell’arcivescovado». C’è un solo crocifisso, piccolo, in alto, molto in alto, dietro l’altare. Devi ficcarci gli occhi per distinguere le piaghe, le gocce di sangue. Bene. Non amo le statue, tutta quell’enfasi sul corpo umano. E qui si può credere in dio, in un dio che non abbia nessuna relazione con noi stessi, qualcosa di vago, cosmico che si muove tra le panche e i muri. Forse abbiamo inventato la resurrezione dei corpi perché abbiamo bisogno dei nostri corpi. Qui nessuno può rifilarti la storia del paradiso in terra: non c’è. Solo guerra, corruzione miseria; il paradiso resta rigorosamente al suo posto, al di là della morte, mentre al di qua fioriscono al proprio posto la crudeltà, la meschinità che in altri luoghi la gente riesce abilmente a passare sotto silenzio. Qui si può amare l’uomo quasi come lo ha amato Dio, conoscendone il lato peggiore. Occorre davvero un Dio che muoia non per quello che è buono e bello, è troppo facile, che muoia per i corrotti e i senza cuore.
Quando sono arrivato ad Abuja, la capitale creata con dispotismo edilizio dai militari al centro del Paese, la vicenda delle duecento studentesse rapite dagli islamisti ad aprile destava ancora compassione, otteneva titoli sui giornali e promesse di politici. Quando sono partito verso Borno e Yobe, verso le terre della guerra, la compassione del mondo era già esaurita da un pezzo. Erano diventate moleste come termiti e non c’era quasi nessuno che dicesse più una buona parola per loro. La Nigeria oggi è un crepuscolo tra speranza e disperazione. Come la Siria, il Nord Africa, l’Iraq pare che niente getti un’ombra sotto quella, trasparente e irreale, della Grande Minaccia, l’avanzata dell’Islam radicale e totalitario. Sembra che un’immensa cometa medioevale stia insieme col sole nel cielo luminoso.
«Lo scopo dei Boko Haram – mi ha spiegato Tom Abada uno dei più noti giornalisti e politologi nigeriani – è esplicito: separare, innescando il meccanismo perverso violenza-repressione, la Nigeria del Nord dal resto del Paese e imporre la sharia totale, creare uno Stato islamico. Ma non è che l’ultimo capitolo di una lunga storia di sette radicali: negli Anni Settanta i «Maitasine» e il loro profeta Mohammed Marwa misero a fuoco il Nord. Ora la setta, all’inizio solo nigeriana, si internazionalizza, si arma e si addestra nei paesi vicini, Niger, Mali, Ciad; tra i combattenti nelle foreste di Maiduguri sono comparsi arabi. Le armi arrivano dalla Libia. Uno dei capi, Mammar Nur, è colto e ha legami solidi all’estero nell’internazionale islamista, è stato in Somalia con gli Shabaab.
Mi infilo in una sedia vicino all’ingresso della chiesa, ho l’impressione di essere immerso in un tiepido bagno di calore, di luce e di consolazione. Ovunque sulle panche le donne come montagnole di abiti colorati. Il gruppo dei celebranti, in biancheria candida, avanza solenne, in corteo, preceduto da una croce d’oro.
Gli addetti indossano bandoliere di raso dorato come nei dipinti del Seicento. Un gruppo di bimbi fa scaldare in un angolo l’incenso per il turibolo, altri, con facce intense e aria da mercanti contano le banconote lasciate per le offerte. Un parroco mi ha raccontato che qui è abitudine dei fedeli ricchi, soprattutto nelle celebrazioni dei pentecostali, annunciare donazioni milionarie, tra gli applausi: «Ma quando vai a incassare scopri che gli assegni sono spesso scoperti… Dio e mammona, sempre…!».
Tamburi rombano e il sacerdote passa adagio da un corno dell’altare all’altro col turibolo fumante. La musica dei tamburi accelera in maniera improvvisa, si getta in avanti come una scogliera contro il mare. Un flauto, sottile, si insinua e non cede al fragore; i fedeli formano due file e iniziano ad avanzare danzando freneticamente, le donne sono le più accese, ipnotizzate. Alcuni alzano offerte, pane e uova, bottiglie d’acqua: è una danza selvaggia che trabocca di vita. L’Africa si riprende la messa, questa è la pulsazione del suo sangue febbricoso, il suo mistico alfabeto, il suo pendolo morale. Non v’è melodia, solo note, una miriade di scosse che non hanno sosta, un ordine inflessibile le fa nascere e le distrugge senza lasciar mai lo spazio di riprendersi di esistere per se stesse. Anche uno dei sacerdoti comincia a danzare mentre l’altro asperge di acqua benedetta le file dei danzanti che gli passano davanti usando un piccolo nebulizzatore.
Ora il giovane prete si è tolto i paramenti, come se avesse deposto una corazza. «Ci vuol coraggio qui ad esser cristiani»… «Eppure la sua chiesa è piena!». «Non creda anche qui, anche tra noi, il dio è il denaro. Ci sono pastori che viaggiano in jet, e tra noi parrocchie milionarie. Si è disposti a tutto per quello e per il potere. Ma questa in maggioranza è gente semplice. Ha con sé una strana pacata chiarezza, elimina tutto ciò che ha per… ». «Per cercare Dio?» «Per trovare Dio! Cercare lo si cerca sempre».
La gente esce dal recinto della chiesa, tra i soldati, si raccoglie in cerchio sotto l’ombra di un albero immenso, parlano ma fanno poco rumore adesso. In Africa per esistere bisogna riunirsi.
Dopo Jos comincia il pericolo vero. Ogni notte da qui fino al confine del Camerun e del Niger le bande dei Boko Haram colpiscono, interi villaggi sono ormai vuoti, le chiese bruciate. La setta si è a poco a poco radicalizzata, attacca tutto, commissariati, sedi pubbliche, caffè, banche che servono a riempire le casse insieme ai sequestri. E le chiese cristiane. Recluta nelle scuole coraniche e tra i piccoli delinquenti, le invettive contro le élite predatrici del Sud suonano convincenti in un Paese immensamente ricco dove la miseria, soprattutto a Nord, non regredisce, l’elettricità è rara, le strade sfasciate.
A Borno la metà della popolazione vive in povertà e neanche la metà dei bambini frequenta scuole laiche. Quante volte abbiamo già letto questa storia? L’islamismo che si nutre e si gonfia con i batteri della miseria e trasforma credenti tiepidi in fanatici. Funziona sempre: in Somalia e in Tunisia, in Siria e tra i tuareg del Mali. E poi qui le jihad contro i «kafurun», gli animisti, ma anche contro i «mukhallitun», i musulmani non ortodossi, sono iniziate come bufere sanguinose nel Seicento, innumerevoli le guerre sante in nome della ortodossia. La via della purificazione, la battaglia interiore contro le impurità dell’anima umana, l’estasi dei marabutti scivola facilmente verso l’intolleranza wahabita, l’attesa di mahdi implacabili.
Ti senti ad ogni curva stringer la gola, il sudore ti cola sotto le ascelle. L’ignoto può apparire pericoloso, ma è indeterminato e la paura la si può tener sotto controllo con la disciplina e magari con qualche trucco. Ma se sai che cosa ti aspetta, la disciplina e i salti mortali psicologici servono a poco. La prima di queste due paure l’ho sentita prima di esser sequestrato in un altro luogo. La seconda ora, perché so cosa mi aspetta. Quando si riparte dopo una tragedia vissuta si crede che il destino sia debitore di una rivincita, invece non lo è, talvolta ci si inganna.
Nella savana, verde per la stagione delle piogge, spuntano grandi alberi isolati che sembrano risparmiati per la loro ombra o la loro bellezza. Uomini con tuniche azzurre sorvegliano mandrie di candidi buoi gobbuti e con le lunghe corna. Parlano haussa, l’inglese ce lo siamo lasciati dietro con i modesti grattacieli dall’inconfondibile stile ministero dei lavori pubblici, e le autostrade a otto corsie della capitale. Qui la strada è una lamella di asfalto sfinito che qualche grosso autocarro color terra percorre a tutta velocità con un rumore di tuono. Due ore dopo un acquazzone, quando tutta la savana è umida sotto il sole, conserva il suo fango e le sue pozzanghere. Tutto il paesaggio è vuoto, sembra che non vi si commettano più assassini per mancanza di assassini e di vittime.
Anche in questo villaggio pesa l’odore stantio della miseria che grava su tutto come una vernice grigia. Mendicanti spuntavano come dal nulla, figure dapprima spettrali, poi molto reali e corpose; le loro richieste di carità, le mani tese, sembravano una minaccia. C’erano soldati tra le case dai tetti di lamiera e uomini delle milizie per l’autodifesa, la «Civilian Joint Task Force», armati di lance e vecchi fucili da caccia. Due uscirono da una via laterale spingendo un uomo. Il suo volto era scarno e dall’angolo della bocca gli usciva un filo di sangue scuro. Gli occhi erano spaventati e pieni di terrore come non vedevo da tempo. I soldati lo trascinavano impazienti. Non facevano rumore, tutta la scena aveva un che di fantastico. Passandomi davanti i soldati mi guardavano con furore e con una espressione di sfida mentre il prigioniero mi fissava con occhi paralizzati. Accennò, ne sono certo, come l’atto di chiedere aiuto movendo le labbra ma senza che uscisse un suono. Era l’eterna scena dell’umanità: gli agenti del potere, la vittima e l’altro, il solito spettatore che non muove un dito, non difende la vittima, non pensa a liberarla perché teme per sé, per la sua sicurezza che lo fa stare sempre in apprensione.
Ripartiamo. Volevo raggiungere Maiduguri, dove è nato il profeta sanguinario Abubakar Shekau, il gigante barbuto che nei video grida: «Adoro uccidere come delle galline tutti coloro che Dio mi comanda di uccidere… ». Impossibile ormai con l’aereo, gli islamisti tengono sotto tiro la base militare che è accanto all’aeroporto e i voli sono stati «sospesi». Resta la strada. Ma l’autista mi avverte: le regioni del Nord sono zona militare, i soldati, prima o poi, ci rimanderanno indietro.
Un altro villaggio, dopo Dukku: mi sono fermato perché sul bordo della strada, sotto un albero sontuoso, posata su due cavalletti, era una bara, nuova, bianca, con manici dorati. Nessuno era attorno, solo la bara e il silenzio, e conferiva al villaggio qualcosa di secco e di cattivo, una delicata punta di orrore.
Cerco la gente, sono attorno a una casa come in attesa, sfioro le loro mani. Dove si toccano si formano subito piccole gocce di sudore. La polvere sui vetri delle finestre fa pensare al vapore appena depositato. Bimbe dalle treccioline corte, fitte e nere mi guardano diffidenti, con occhi scaltri e cauti: sono, da chilometri, l’unico bianco. Giovani madri che portano i bimbi avvolti in un panno sulla schiena si alzano e se ne vanno. La madre africana il figlio non lo vede, lo sente. Non ha bisogno di guardarlo in viso per capire se è allegro o ha fame. Nel nodo dello scialle passano guizzi e respiri.
Qui trovo Jude: tiene gli occhi semichiusi ed è già molto se si sorprende tra le ciglia l’orlo estremo delle pupille grigie. È un ibo, etnia di cristiani e mercanti. Negli Anni Settanta sono sopravvissuti, nel Biafra, a un genocidio dove si mescolavano, sordidamente e confusamente, religione e petrolio. Jude è fuggito da Maiduguri, abbandonando casa e negozio: «In città esplodevano autobombe, di notte venivano a casa a cercarti, i terroristi armati, per ucciderti. Come si può vivere così? L’esercito non ci ha difeso. I Boko Haram sono dappertutto ormai, anche qui. Non lo senti l’odore della morte?». Sì, l’odore arriva a zaffate. Nella casa vicina si veglia un cadavere, un uomo trovato ucciso nel suo campo. La luce sfioccola debolmente, il pianto dei parenti sembra cessato, solo ogni tanto delle vecchie singhiozzano, piccoli gridi abbaianti, l’assurda abbreviazione del dolore, e poi ricadono nel sonno come un mucchio di lana nera che le soffocasse. Ombre sgusciano più grandi del naturale come fossimo in una giungla di spiriti e i Boko Haram fossero la belva che gli stregoni evocano con i loro scongiuri.
«Un giorno ci avvertirono che i Boko Haram stavano per fare un’incursione. Abbiamo chiesto all’esercito che accorresse a presidiare il villaggio. Invece, indossando uniformi, sono arrivati i terroristi: sapevano che avevamo chiesto aiuto. Hanno massacrato gli uomini del villaggio, qualcuno dell’esercito aveva fatto la spia». Fin dalla origine venti anni fa i Boko Haram hanno trovato appoggi tra i politici locali in cerca di clientele, volevano manipolarli per i loro giochi di potere. Anche oggi uomini di affari e politicanti dei due partiti maggiori continuano a fornire denaro e omertà: il prossimo anno ci sono le lezioni presidenziali, il presidente Goodluck Jonathan, è un sudista e un cristiano. Ma il mostro è sfuggito al controllo dei suoi creatori.
Ecco: ora so perché sono venuto. La gente di questi villaggi di profughi dopo anni di paura e massacri non ha portato con sé altro che sensi affinati, la risoluzione di vivere e la cautela e la esperienza di malfattori fuggiaschi. Tutto il resto è diventato inutile. Le notti nascosti nella foresta, l’esistenza da talpa del sottosuolo, l’abitudine a lottare per un po’ di cibo e un po’ di sonno. Nel fuggire hanno commesso un suicidio. Non ritorneranno mai, sono in realtà già morti, chi vive è un altro e vive in un tempo regalato.
È l’esistenza di chi non può star fermo in nessun luogo, cui non è lecito metter mai radici, che deve sempre rotolare. L’esistenza del profugo. L’esistenza dell’uomo moderno: in Africa e altrove.