ROMA – Claudio Giardiello, l’uomo che ha sparato giovedì 9 aprile all’interno all’interno del Tribunale di Milano uccidendo tre persone, era imputato in un processo per fallimento che si teneva nello stesso tribunale. Il Corriere della Sera, in un articolo a firma di Andrea Galli e Gianni Santucci, descrive le sue ossessioni tra fallimenti, casinò, voli in jet privato e tiri al poligono.
Negli ultimi tempi, al fondo della deriva, ormai poteva permettersi solo il lusso dei pochi spicci alle slot machine, nei bar dei cinesi a Cologno Monzese. E siccome Giardiello le case le costruiva e le vendeva, la storia del suo disastro umano ed economico gli si presentava ancora davanti: l’appartamento dove vive la moglie, a Brugherio, si trova in un palazzo che aveva tirato su proprio un’azienda di cui era socio. E poi c’è la casa di Milano, in via Mercato, pieno centro. Giardiello ce l’aveva fisso in testa e continuava a passarci sotto e osservava afflitto le grandi vetrate luccicanti dicendo agli amici: «Lo sai quanto vale? Te lo dico io, più di due milioni di euro. Se quando sono andato in difficoltà me l’avessero fatto vendere, avrei messo a posto buona parte dei debiti. Invece hanno dichiarato il fallimento e quella casa è andata all’asta, qualcuno se l’è portata via per un quarto del valore e adesso sono rovinato».
Parole, tante parole che sfociavano sempre su un obiettivo: i giudici.
Dal 2008 era un imputato per bancarotta fraudolenta, ma cullava una mania di persecuzione con i magistrati responsabili: «Li odio» diceva e scandiva. «Non sono umani, se quel giudice fosse stato umano mi avrebbe dato la possibilità di salvarmi. Non l’ha fatto. M’ha voluto affossare». Per anni ha impastato nella testa queste frasi col rancore. Giovedì mattina ha aperto la stanza 250 al primo piano del tribunale e ha sparato al giudice Fernando Ciampi, seduto alla sua scrivania. Per ognuno dei morti Giardiello aveva pronta una narrazione deviata. E anche qui, di nuovo, tutto ruotava intorno a un’impresa di costruzioni. Un giorno di qualche anno fa portò un suo amico fino a Melegnano, in macchina lo fece sfilare davanti a una quindicina di villette a schiera, erano state costruite da un’azienda in cui Giardiello era socio, due erano già abitate: «Sul mercato stanno sui 6-700 mila euro. Quei bastardi le hanno vendute sottobanco, senza farmelo sapere; si sono intascati i soldi. Ma quando c’erano le perdite, venivano a chiedermi di ricapitalizzare». La rete di quei soci, che facevano girare ricchezza (in chiaro e in nero), s’è distrutta in una serie di denunce e accuse incrociate: al centro della lista di obiettivi Giardiello aveva messo però il nipote Davide Limongelli, 41 anni, il primo a cui ha sparato (e che si è salvato). «Lo sai che lo devo ammazzare?» ripeteva all’amico Gildo Gabrielli. «Finirà così perché mi hanno truffato e imbrogliato. Dovrò ammazzare lui e poi i giudici».
Fino a qualche mese fa sembrava che Giardiello volesse provare a salvarsi per vie legali. Denunciava ed era sempre in Tribunale, con un’insistenza paranoica. Le sue frequentazioni al poligono di Milano erano aumentate.
Provava la mira, ripeteva i movimenti. Preparava l’epilogo. Con metodo, insistenza. Come sua abitudine. Non è mai stato un uomo da toccata e fuga. S’addentrava piuttosto nelle passioni, nelle manie, ci affondava. Al casinò di Campione d’Italia, per esempio. Cliente così assiduo delle roulette da guadagnare il privilegio dell’accesso al banco fidi, dove in cambio delle fiches e in assenza di garanzie vanno sulla fiducia e chiudono un occhio. Le leggende tramandate dagli amici raccontano d’una vincita esagerata al casinò, un miliardo delle vecchie lire. Le più concrete cronache giudiziarie dicono che una volta a Campione, dopo una perdita, incolpò la casa da gioco. Diede di matto. Lo portarono fuori a forza. Forse li ringraziò. Come giovedì con i carabinieri che l’hanno arrestato: «Meno male che mi avete preso, stavo per ammazzarne un altro». Le ultime frasi (…)