Comunista ma non marxista si può? Scalfari: sì. “Ma il collegio sia uninominale”

Comunista ma non marxista si può? Scalfari: sì. Ma il collegio sia uninominale
Scalfari (a sin.) vuole il collegio uninominale e boccia la legge che Verdini e Berlusconi hanno imposto a Matteo Renzi

Matteo Renzi sta uscendo, più per machiavellico calcolo che per simpatia, dal cono d’ombra di Eugenio Scalfari,

il quale non nasconde il suo profondo sentire:

“A me Matteo Renzi non ispira molta fiducia né come segretario del Pd né come eventuale presidente del Consiglio”.

Può essere una notizia buona o cattiva secondo i punti di vista delle tante che si possono apprendere leggendo l’editoriale di Eugenio Scalfari di domenica 26 gennaio 2014. La più importante, dal punto di vista degli studiosi di storia delle dottrine politiche è che si può essere comunisti senza essere marxisti.

Tale sarebbe stato infatti, secondo Scalfari, Giorgio Napolitano che, apprendiamo, è “devoto cultore” di Luigi Einaudi

” nonostante il suo passato di comunista (ma non marxista)”.

Per fortuna di Napolitano all’epoca del Comintern non se ne accorsero e a Togliatti nessuno lo disse.

C’era chi credeva che si potessero adottare alemo alcuni dei criteri di analisi storica di Marx, determinismo a parte, ma quella che si potesse essere comunisti senza essere marxisti è da giro del mondo.

La gran parte delle tesi esposte da Scalfari è peraltro condivisibile: che ci voglia un sistema maggioritario, che Renzi non piaccia, che Berlusconi lo plagi. Un po’ meno azzeccata la tesi che Renzi sia indispensabile al futuro del Pd, forse è solo una eco della nuova profonda sintonia non solo con Berlusconi ma anche con Napolitano.

L’affermazione più importante è sul sistema elettorale:

“La legge più appropriata deve dare il peso che merita al criterio della rappresentanza e diminuire — non certo abolire — il criterio della governabilità.

“La soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali, innalzare la soglia prevista per ottenere il premio di maggioranza al 40 per cento, abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in proporzione la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli.

“Più o meno sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile nell’interesse della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi fa bene a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e mafie, come è spesso avvenuto in passato”.

Quello che Scalfari rileva è, purtroppo, il principale difetto di tutte le leggi elettorali future e passate: l’assoluto predominio dei vertici dei partiti nella scelta dei candidati, che continua a tradire quanto gli italiani misero nero su bianco con tante crocette all’epoca dei referendum, vent’anni fa.

All’epoca aveva preso corpo quello spirito ostile ai partiti che è una prevalente sciocchezza di tanto giornalismo e tanta politica. I partiti sono il sale della politica, anzi di più, sono l’essenza della politica, lo strumento attraverso il quale i cittadini hanno rapporti con la politica.

Ma i partiti devono essere una massa viva e in movimento, non un blocco di cemento governato da pochi. Quello che piace a Berlusconi e ancor più agli ex comunisti e forse a chiunque si occupi di politica politicante, è invece proprio il rigido controllo sulle candidature.

L’hanno integrato con la farsa delle primarie, che nella versione del Pd sono diventate una specie di elezione popolare diretta del segretario ma in assenza di un  vero controllo sono anche una presa in giro.

L’unico sistema che più decentemente può dare voce ai cittadini conservando il ruolo dei partiti in forma democratica, federale” e anche “di base” è quello anglosassone e, ancor meglio, americano, le primarie fra gli iscritti al partito decidono i candidato del partito stesso da opporre a quello o quelli degli altri partiti. Questo non esclude l’interferenza dei potentati dei partiti a livello locale, ma almeno porta il livello al pianterreno e quindi inevitabilmente al piano dei cittadini.

Scalfari si addentra nei ricordi della “legge truffa”

“proposta dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati laici, i cosiddetti partitini”.

La legge, ricorda Scalfari dopo 60 anni,

“fu sconfitta dall’opposizione di dissidenti da sinistra e da destra, tra i quali emergevano Codignola, Parri e Corbino. Eppure non era una grande truffa: attribuiva un premio del 15 per cento alla coalizione che avesse superato il 50,1 dei voti. Si votava in collegi uninominali, gli stessi con i quali nel 1948 la Dc aveva incassato il 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi”.

Scalfari qui dimentica un brutto precedente, la legge elettorale che attribuendo la maggioranza al partito che ottenesse il 25 per cento dei voti consolidò per 20 anni Mussolini al Governo.

“Oggi siamo alle prese con una riforma elettorale voluta da Renzi e da Berlusconi e diventata disegno di legge in pochi giorni, che cerca di realizzare il massimo di governabiltà sacrificando i criteri di rappresentanza. Il punto di frizione con i partiti minori e con i Cinque Stelle è proprio questo: attraverso un complicato gioco di soglie di sbarramento e di premi, le forze minori vengono di fatto ridotte al silenzio lasciando in campo i partiti maggiori. Come si può uscire da quest’imbroglio? Berlusconi se ne preoccupa poco o niente: voleva riguadagnare il titolo di salvatore della Patria e ce l’ha fatta”.

“Per lui è una posizione di importanza enorme che può avere ripercussioni anche sulle sue vicende personali. Ma per Renzi è diverso; lui deve assolutamente portare a casa il risultato. Se fosse battuto sarebbe un disastro e lo sarebbe anche per il Pd. Nei sondaggi quel partito supera il neo-salvatore della Patria di 12 punti, ma li perderebbe di colpo se Renzi cadesse sulla riforma elettorale. Il crollo dei consensi finirebbe col travolgere anche il governo Letta. Del resto la forza di Renzi è proprio questa: o vincete con me o con me affonderete. È questo l’imbroglio in cui ci troviamo”. 

Fin qui ineccepibile. Poi si perde sulla via del Quirinale. Matteo Renzi non gli piace, dichiara Scalfari, il quale sente  costretto a riconoscere

“però che la sua iniziativa ha dato una scossa al partito del quale è il leader e di conseguenza a tutta la politica italiana, governo compreso il quale ne aveva urgente bisogno.

“La legge da lui presentata, tuttavia, è assai poco accettabile poiché — volutamente e quindi consapevolmente — cancella non soltanto i partiti minori avversari senza se e senza ma del Partito democratico, ma anche quelli disposti ad allearsi col Pd ed entrare a far parte d’una coalizione da esso guidata.

“Il gioco delle soglie d’ammissibilità, da quella del 12 per cento a quella dell’8 e del 5, rischia di escluderli dall’eventuale premio previsto per chi raggiunge il 35 per cento dei consensi. Se infatti quei partiti non superano la soglia del 5 per cento non parteciperanno ai voti ottenuti dalla coalizione. Sono soltanto portatori d’acqua che non ricevono alcun tipo di ringraziamento dal partito maggiore che, anche con i loro voti, ha sconfitto l’avversario o comunque diventerebbe il partito d’opposizione. Ai portatori d’acqua non resta nulla fuorché gli occhi per piangere.

“Con questa legge, come è uscita dalle stanze del Nazareno, non restano in campo che Pd, Forza Italia e l’incomunicabile Grillo che probabilmente sarà beneficiario di quegli elettori che saranno schifati dal duopolio Renzi-Berlusconi e dalla loro riaffermata e reciproca sintonia.

In una situazione di questo genere restano due punti fermi: la libertà costituzionalmente affermata del mandato parlamentare al quale non si può opporre alcun vincolo e la necessità che Renzi rimanga al suo posto di segretario del Pd per l’esistenza stessa di quel partito.

“La legge elettorale si trova ora all’esame del Parlamento che è libero di pronunciarsi. Se viene rivista in alcuni punti essenziali Renzi deve accettarne il risultato e restare al suo posto; dimettersi da segretario avrebbe infatti le stesse conseguenze d’una scissione del partito che nelle primarie ha votato massicciamente per lui.

“Un conto è il partito, un conto è il Parlamento. Il primo è una libera associazione, il secondo è un organo istituzionale sul quale si fonda la democrazia rappresentativa. Il primo è depositario di una sua visione del bene comune, il secondo è titolare dell’interesse generale e non ha nessun leader ma soltanto i propri organi previsti dai suoi regolamenti. I leader dei partiti non

hanno in Parlamento alcun potere salvo la propria autorevolezza. Ugo La Malfa ai suoi tempi era più autorevole in Parlamento di quanto non lo fossero Rumor o Piccoli o De Martino o Mancini quando erano segretari della Dc o del Psi e guidavano partiti dieci o cinque volte più forti dei repubblicani i cui voti alla Camera oscillavano tra i 5 e i 20, su 630 membri.

“Renzi deve dunque restare e far digerire a Berlusconi il nuovo schema di legge approvato dalla Camera, sempre in attesa che il Senato sia riformato come è necessario fare”.

 

 

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