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Corriere della Sera e Sole 24 Ore contro Monti: “Poteri forti mi hanno lasciato”

di Marco Benedetto |7 Giugno 2012 18:29

Mario Monti (foto Lapresse)

ROMA – Mario Monti piange che non ha più l’appoggio dei “poteri forti”. Non siamo ancora ai complotti che torturavano Benito Mussolini e turbavano le notti di Silvio Berlusconi, ma il sintomo è preoccupante.

Ha detto Monti: “Il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l’appoggio che gli osservatori ci attribuivano, spesso colpevolizzandoci, dei cosiddetti poteri forti perché non incontriamo favori in un grande quotidiano rappresentante e voce di potere forte e in Confindustria”.

Ha detto ancora: “Non voglio negare che avremmo potuto fare di più e meglio” ma “molte riforme, ora scontate, sono state messe a punto con grande rapidità e incisività.. Non lo considero un merito ma era necessario nonostante infrangessero tabù intoccabili per decenni”.

Ma cosa ha provocato in Monti questa sindrome del martirio?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere scrivono che “la riguadagnata reputazione internazionale non sopravvivrebbe alla percezione che lo sforzo riformatore del suo governo rischi il fallimento. Già molti osservatori sono rimasti perplessi per i passi indietro compiuti sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro”.

La domanda di Alesina e Giavazzi: “Ora si chiedono in che direzione si muoverà il governo Monti”. La risposta dei due economisti: “A noi pare si vada in quella sbagliata”.

La frase è corredata di spiegazione: “Il provvedimento più importante che il governo si appresta a varare riguarda le infrastrutture fisiche. Lo abbiamo detto più volte, ma è bene ripeterlo: non è questa la priorità dell’Italia. Che beneficio arreca a un’impresa risparmiare mezz’ora fra Civitavecchia e Grosseto se poi deve attendere dieci anni per la risoluzione di una causa civile, due per sapere da un giudice se dovrà reintegrare sul posto di lavoro un dipendente che aveva licenziato, oltre un anno per essere pagata da un’amministrazione pubblica?”

Alesina e Giavazzi scrivono quello che dovrebbe fare il governo: “Servono infrastrutture di altro tipo: una giustizia veloce, certezza del diritto, regolamenti snelli, un’amministrazione pubblica che faccia il suo dovere e non imponga costi enormi a cittadini e imprese, un’università che produca buon capitale umano e buona ricerca, e una lotta efficace alla criminalità organizzata”.

Purtroppo, proseguono i due, non è ubriacandoci di asfalto e traverse ferroviarie che il Paese ricomincerà a crescere. Senza contare che con tassi sul debito pubblico al 6 per cento non è certo un buon momento per indebitarsi.

Conclusione di Alesina e Giavazzi: Ciò che il governo oggi sta discutendo ci pare, purtroppo, molto più simile alla vecchia politica che alla ventata innovatrice che respirammo per qualche settimana lo scorso novembre.

Non è andata meglio a Monti su Il Sole 24 Ore, dove l’editoriale è stato affidato a Guido Gentili.

Dopo un brevissimo excursus in cui spiega che cos’è un allarme rosso, Gentili affonda: “Oggi la condizione dell’Italia è da allarme rosso. Non è quello che detonò (allora a colpi devastanti di spread) nel novembre scorso ma la situazione è comunque grave e insidiosa, e non inganni il saliscendi giornaliero delle Borse e degli spread (che resta molto alto e ben oltre la soglia di guardia)”.

Il Paese, spiega Gentili, ha il fiato corto, pressato com’è dal torchio fiscale, e corre sul filo di una pericolosa destrutturazione. Economica ma anche sociale, come dimostra l’angosciato avvicinarsi del “popolo dell’Imu” alla scadenza finale per il pagamento delle tasse per la casa. Consumi e produzione sono fermi, la domanda interna bloccata, la stretta del credito è violenta, i pagamenti non girano e le imprese non hanno liquidità (su di esse gravano anche, a causa delle mafie, costi diretti e indiretti pari al 2,6% del Pil nel Sud e dell’1% nel Centro-Nord), la cassa integrazione è in aumento.

Le spiegazioni di Gentili sono date di seguito: Bassa produttività e redditività, una burocrazia cervellotica, una giustizia civile-lumaca completano un quadro su cui aleggia un senso diffuso di incertezza. Non bastasse, ecco la fotografia scattata dal Centro studi Confindustria: negli ultimi quattro anni, la produzione manifatturiera italiana (cioè l’asse portante del nostro sviluppo industriale) ha perso l’1,2% della sua quota sui mercati mondiali, passando dal 4,5% al 3,3%.

Che significa questo? Che l’Italia passa dal quinto all’ottavo posto nella classifica delle venti nazioni più industrializzate del mondo. Non solo. La ricaduta in recessione, partendo già da livelli molto bassi di attività dopo il crollo del 2008 che in un solo anno ne ha annullati otto di crescita (ancorché bassa, in media +0,4% annuo), può tradursi in una stagione di vera e propria deindustrializzazione.

Secondo Gentili questa condizione porterebbe a un ulteriore arretramento di struttura che aprirebbe scenari inediti e drammatici. Questo non vuol dire che il Paese, peraltro non nuovo a repentini scatti d’orgoglio, sia condannato ad una deriva sistemica.

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