ROMA – “Costituzione rossa anche per internet” è il titolo dell’articolo sulle pagine di Libero Quotidiano a firma di Fausto Carioti:
Era la grande domanda della vigilia: si può fare una carta costituzionale del mondo di Internet, ammesso che una cosa del genere possa avere senso, senza tutelare né nominare il diritto di proprietà intellettuale, insomma il copyright, visto che in fondo Internet altro non è che trasmissione, e spesso copia, di dati frutto dell’ingegno? Che era come chiedersi, più banalmente: ma l’insigne costituzionalista Stefano Rodotà, presidente mancato della Repubblica Italiana, è comunista anche nella sua versione digitale? I quesiti hanno avuto risposta ieri, e per ambedue è «sì».
Tutto iniziò con lo spoglio di quelle schede in diretta televisiva, finito nel modo che sappiamo. Quel giorno in Laura Boldrini rimase una gran voglia di «Ro-do-tà». Dopo averci riflettuto, la terza carica dello Stato ha deciso di togliersela nell’unico modo in cui poteva: non essendo riuscita ad annunciare l’elezione del suo costituzionalista preferito a presidente della Repubblica, gli ha affidato la guida del gruppo incaricato di scrivere nientemeno che la Carta dei diritti della Rete. Nome ufficiale: «Commissione per i diritti e i doveri relativi a Internet». Un organismo misto, da lei stessa ufficialmente presieduto e composto da undici parlamentari e tredici esperti (evidente omaggio alla superiorità della società civile, gran parte dei quali peraltro schierati a sinistra). Un organo collegiale solo in apparenza: come raccontano i partecipanti e come dimostrano i resoconti dei lavori, tutto ruota attorno a Rodotà, presidente di fatto della commissione. Lui ha scritto il testo, limitandosi a ritoccarlo qua e là man mano che dagli altri commissari gli arrivavano via mail suggerimenti che riteneva condivisibili. Non che questo abbia portato via molto tempo all’ex parlamentare del Pci.
Sinora la Commissione si è riunita solo due volte (il 28 luglio e il 22 settembre) e lui stesso si è vantato di avere scritto la prima versione del testo in una notte, suscitando un filo di inquietudine tra gli astanti. Anche perché l’argomento è complesso, sotto certi aspetti inafferrabile. Nella sua prima bozza Rodotà aveva scritto che Rete e World Wide Web sono la stessa cosa: chi tra gli altri partecipanti conosce l’argomento (non tutti infatti sembrano masticarlo) lo ha garbatamente redarguito: i contenuti cui si può accedere tramite browser (il Web, appunto) sono solo una parte della Rete, che semmai è sinonimo di Internet. Scarsità di tempo e vastità e vaghezza della materia scoraggerebbero chiunque, ma non la coppia Boldrini-Rodotà. Le cui ambizioni, anzi, tendono verso l’infinito: i due hanno deciso che la «Dichiarazione dei diritti in Internet» scritta a Montecitorio sarà portata all’attenzione dell’Assemblea generale dell’Onu e quindi discussa all’Internet governance forum che le stesse Nazioni Unite stanno organizzando in Brasile per il prossimo anno. Auguri.
Intanto, da ieri, è disponibile online la bozza ufficiale. Un preambolo e quattordici articoli racchiusi in sei paginette: poca roba. Eppure la fuffa riesce ad essere tanta. Ad esempio, quando si legge (articolo 2) che «ogni persona ha eguale diritto di accedere a Internet in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e aggiornate che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale», al di là della nobiltà dei concetti non si capisce come questi poi debbano concretizzarsi: lo Stato fornisce connessione e modem a banda larga a chi non può permetterseli, come fa con l’assistenza sanitaria? Belle ma inutili, poi, le affermazioni sulla tutela delle persone da «comportamenti negativi quali incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza», sul diritto all’oblio, il rispetto della dignità personale e la libertà di manifestazione del pensiero: si tratta di diritti già difesi da leggi esistenti, inclusa la Costituzione del 1948, ai quali la Costituzione 2.0 di Rodotà non toglie né aggiunge nulla. Dove Rodotà mette del suo, invece, è nella scelta di non garantire, anzi di non citare nemmeno, il copyright.
Il diritto più discusso e attaccato, soprattutto da sinistra, dove quando si parla di Internet il pensiero dominante è quello di consentire la massima «condivisione» delle opere digitali, fingendo di non sapere che in realtà, in tanti casi, è di copia, e quindi di furto di proprietà intellettuale, che si sta parlando. «Un atto deliberato di ignavia», racconta uno dei membri della Commissione (…)
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