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Ebola: a Pomezia si insegue il vaccino. Laboratorio stava per chiudere…

di FIlippo Limoncelli |22 Ottobre 2014 9:30

Ebola: a Pomezia si insegue il vaccino. Laboratorio stava per chiudere…

ROMA – L’ossessione l’hanno coltivata, quattro amici di scienza, per diciassette anni: “Si possono produrre vaccini diversi da quelli esistenti, si possono attaccare le spaventose pandemie, la malaria, l’Aids, pure Ebola”. Cinque anni fa l’ossessione ha trovato un laboratorio degno di ospitarla e quindi la possibilità di applicare un metodo, nuovo metodo, per produrre vaccini (iniezioni preventive, quindi, non successive al contagio).

Lo scorso 28 agosto, con i risultati stupefacenti osservati su un gruppo di macachi da sette chili, l’ossessione ha trovato sfogo: le scimmie a cui era stato iniettato l’antidoto di produzione italiana sono sopravvissute tutte, le altre sono morte, tutte. La Food and drug administration americana ha approvato l’uso del vaccino per test clinici. “Ora proviamo a fermare il contagio di Ebola”.

Scrive Corrado Zunino sulla Repubblica:

Il professor Alfredo Nicosia, 57 anni, romano di Mostacciano, quattro figli adottati, laureato in chimica alla Sapienza, ordinario alla Federico II di Napoli, è il responsabile scientifico dell’Irbm, l’istituto di ricerche di biologia molecolare allocato in un énclave verde tra le rovine post-industriali di Pomezia, venticinque minuti da Roma attraverso la pericolosa consolare Pontina. «I primi, decisivi finanziamenti sono arrivati da lungimiranti sponsor svizzeri, olandesi e inglesi, in Italia non si trovava un euro». È il professor Nicosia a raccontare, tra i laboratori di Pomezia, la storia di un miracolo italiano, avendo l’accortezza di lasciare il fascio di luce puntata sul protagonista dell’intuizione, il professor Riccardo Cortese, 60 anni, senese di adozione napoletana, moglie olandese e due figli. Cortese ha insegnato alla scuola di medicina di Napoli, ha vissuto a Pomezia e oggi guida l’Okairos, la piccola azienda al centro del mondo battezzata su un logo greco, “il momento irripetibile”. Gli altri due ricercatori sono Stefano Colloca, 56 anni, e Antonella Folgori, la più giovane, 48 anni. Hanno, tutti e quattro i resercher diventati scienziati, trovato conferme ai loro studi in California, in Francia, a Heidelberg, ma poi l’applicazione della scintilla collettiva l’hanno trovata nell’eden di Pomezia, che stava per diventare uno dei tanti stabilimenti abbandonati del Pontino.

La multinazionale americana Merck and Co. di Redington, New Jersey, nel dicembre del 2008 inviò un fax alla sua controllata italiana: «Entro sei mesi il centro sarà chiuso». Duecento ricercatori a casa, azienda abbandonata come le altre di Pomezia: Selex, Mondadori printing, Radim. I dirigenti della Irbm, in quei giorni, contattarono il loro ufficio stampa, Pietro Di Lorenzo, già immobiliarista dell’Edilnord dei Berlusconi, titolare di un’agenzia di produzione televisiva. L’uomo aveva fin lì confezionato fiction da primato per Rai-Due come “Butta la luna” (con Fiona May), format di basso intrattenimento come “I raccomandati” (questa per RaiUno). Diciotto milioni l’anno di giro d’affari solo con la tv di Stato, oggi azzerati «perché ho denunciato due funzionari che mi hanno chiesto tangenti e Gubitosi mi ha cancel- lato dal palinsesto».

A settembre 2009 Di Lorenzo lascia la Ldm comunicazione al figlio e acquista lo Science Park di Pomezia, attrezzature comprese, dalla multinazionale americana. Chiede ai sindacati confederali di lasciarlo lavorare e l’ottiene. Riparte a marzo 2010 con i cinquanta ricercatori migliori, tra loro lo scopritore dell’Isentress, un farmaco che ha cambiato le terapie per curare l’Aids. Oggi, a 64 anni, Di Lorenzo ha ripreso in fabbrica quasi tutti. La resurrezione industriale s’incrocia con la volontà di indipendenza dei quattro ricercatori alternativi, che nel frattempo erano usciti dal marchio globale Merck per fondare una loro società, l’Okairos, stanziata a Basilea. «Cercavamo una metodologia universale per malattie come Hiv, malaria, epatite C, Ebola». Contro questi virus aggressivi gli antidoti tradizionali non avevano funzionato: «Volevamo un vaccino capace di creare cellule killer, le T-killer, capaci di distruggere i linfociti infettati. I vecchi vaccini erano alla base di proteine ricombinanti, noi abbiamo provato ad amministrare il gene. Per iniettare il dna nella singola cellula malata abbiamo messo il vaccino dentro un altro virus, l’adenovirus, che poi è quello che provoca il raffreddore ». Nella stagione 2007-2008 l’antidoto rivoluzionario è pronto, ma serviranno altri cinque anni per metterlo in produzione (…)

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