Emilia rossa crollata, Giampaolo Pansa: “Renzi l’ha mangiata”

Emilia rossa crollata, Giampaolo Pansa: "Renzi l'ha mangiata"
Emilia rossa crollata, Giampaolo Pansa: “Renzi l’ha mangiata”

ROMA – “Dove è finita l’Emilia rossa del tempo che fu? – scrive Giampaolo Pansa su Libero – Ecco una domanda obbligata dopo le disavventure giudiziarie dei compagni Bonaccini e Richetti. Entrambi sono modenesi, un dettaglio topografico che mi riporta alla memoria il monito che nei primi Anni Ottanta, dopo un’intervista, aveva rivolto a Giorgio Bocca il sindaco di Modena, Mario Del Monte: Se affonda Modena, affonda l’Italia!”.

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Del Monte era un comunista orgoglioso della propria città. Non la riteneva seconda rispetto a Bologna. Il suo non era un campanilismo banale, bensì la rivendicazione puntigliosa di un primato. Per fortuna di tutti, Modena non è crollata. Ma l’Emilia rossa certamente sì. Chi l’ha portata ai piedi di Gesù Cristo è l’alieno che sta a Palazzo Chigi, Matteo Renzi.

Lui si è mangiata tutta la regione simbolo del comunismo all’italiana. E già che c’era, si è pappata per intero la Toscana. Da granducato che era, l’ha trasformata nel palazzotto del suo Giglio Magico, pieno di fedelissimi, di amici, di amici degli amici. Ma a colpire di più è la brutta fine della potenza emiliana.

E adesso leggerete come ne parlavano le eccellenze rosse della regione in un anno preso a caso, il 1982. Iniziamo da due intellettuali. Mario Melloni, il mitico Fortebraccio, scriveva: «L’Emilia Romagna è anche un fenomeno di cristianesimo operante. Dove la laboriosità si sostituisce al vizio.

E la generosità è generatrice di solidarietà e di carità, virtù che lo spirito religioso giustamente predilige». E Ugo Baduel, firma di rango dell’Unità: «Bologna e l’Emilia sono una grande quercia frondosa sulla linea dell’orizzonte italiano, una quercia che s’impone in ogni stagione».

Luciano Lama, segretario generale della Cgil, parlava così: «L’Emilia è forte. Esprime una realtà diversa dal resto del Paese. Qui i ricchi sono meno ricchi, i poveri meno poveri. Qui si è saputo coniugare una strategia di lungo periodo con obiettivi immediati».

E Luciano Guerzoni, segretario regionale del Pci: «Quando si attacca Bologna e l’Emilia, si colpisce la speranza stessa del rinnovamento del Paese. Occorre vincere la sfida qui, per vincerla in Italia». E Renzo Imbeni, segretario federale di Bologna: «In Emilia c’è un esperienza grande del nuovo modo di governare. Qui non c’è malgoverno né clientelismo».

I compagni emiliani non avevano complessi di inferiorità. Antonio Bernardi, deputato di Reggio Emilia, disse a Fabrizio Coisson dell’Espresso: «Il nostro tessuto di dirigenti è di formazione europea. I quadri delle nostre cooperative girano per la Germania, la Francia, l’Inghilterra. Quelli sono i loro modelli di riferimento. Mitterrand, in Italia, siamo noi!».

Persino i comunisti siciliani li invidiavano. Luigi Colajanni spiegò a Maurizio Chierici del Corriere della sera: «I miei compagni emiliani hanno capito che il vero modo di fare politica in una società capitalistica è quello dell’organizzazione stabile degli interessi. Il militante siciliano, escluso dal potere, non l’ha compreso». Ancora il segretario regionale Guerzoni: «Il pluralismo ha avuto in Emilia-Romagna condizioni di sviluppo sconosciute altrove. Le accuse di egemonismo comunista sono veramente pretestuose».

E Alfonsina Rinaldi, la gentile segretaria del Pci di Modena e futura sindaco, diceva a Carlo Valentini del Giorno: «Lei mi chiede perché molti imprenditori emiliani, piccoli e medi, si iscrivono al Pci. La risposta è che condividono il nostro programma. Non chiediamo un’adesione ideologica. Gli imprenditori concordano con noi sulla necessità di una riqualificazione dell’apparato produttivo che il Pci sta sostenendo e che va nell’interesse sia dell’operaio, sia dell’industriale».

Di nuovo il compagno Guerzoni: «Quello che ci appare assurdo, e lo diciamo al di fuori di ogni interesse di partito, è che nelle venti banche d’interesse pubblico dell’intera regione Emilia-Romagna non vi sia tra i dirigenti un solo comunista». Eppure i compagni dell’Emilia rossa se ne intendevano di denaro. Il segretario federale di Reggio Emilia, Alessandro Carri, spiegò ai giornalisti che nella sua provincia, durante la sottoscrizione a favore della stampa comunista, per la prima volta si era superato il muro del miliardo di lire. Un altro dirigente emiliano disse, fuori dai denti: «Sono quarant’anni che manteniamo le Botteghe Oscure!».

Secondo Alfredo Reichlin, direttore dell’Unità, esisteva una realtà che era doveroso riconoscere: «Ci sono più elementi di socialismo nelle terre dell’Emilia-Romagna che nelle campagne polacche di Cracovia, più a Bologna che in certe città dell’Est». Merito anche del Psi di Bettino Craxi? Ma non diciamo bestemmie! All’inizio degli anni Ottanta bastava far capolino in una festa del Pci per sentir maledire «quelli del Garofano».

Invece di sconfiggere «le Sorelle Bandiera» democristiane, pronte ad andare a letto con tutti, il segretario socialista si era alleato con loro. Alla Festa nazionale di Genova le cuoche volontarie avevano cucinato «la trippa alla Bettino». Alla Festa di Torino niente trippa, ma raffiche di maledizioni. La militanza rossa considerava Craxi l’avversario da battere.

I compagni strillavano che era arrogante, spregiudicato al punto di digerire la P2 di Licio Gelli come un pitone digerisce un coniglio, un tangentaro, il capo del partito degli scandali. Il compagno Giorgio Napolitano, il comunista pallido chiamato “re Umberto”, chiede un rapporto nuovo con il Psi? Forse, chissà, è improbabile, è impossibile. Comunque sia, prima bisogna liquefare Craxi. Un Bettino che vale un Benito: il nuovo fascismo nascerà sotto il segno del Garofano.

Per fortuna, il bastione dell’Emilia rossa stava lì, costruito nell’acciaio, una roccia inespugnabile dagli avversari. Nel 1981, alla vigilia del secondo Congresso regionale del Pci, gli iscritti erano 455 mila. Sostenevano un apparato imponente, fatto di 343 funzionari, dei quali 52 erano donne. Un rapporto della Commissione regionale di controllo, redatto da Sergio Soglia, spiegava: «Negli apparati delle federazioni una percentuale alta di quadri proviene direttamente dalla Federazione giovanile comunista e dal Movimento studentesco. Vanno valutati pregi e difetti di questa scelta, forse più spontanea che voluta.

Nel senso che la ricerca dei quadri emergenti dalle sezioni e dai luoghi di lavoro conosce un momento di difficoltà. È necessario dare nuova linfa al partito, promuovendo militanti con maggiore esperienza di base, attingendo laddove si vive direttamente la produzione e la durezza dello scontro di classe». Mancavano pochi anni alla caduta del muro di Berlino, alla fine dell’Unione sovietica e all’estinzione del Pci per mano di Achille Occhetto.

Ma il Partitone rosso si attrezzava davvero come una grande azienda, convinto di sopravvivere per l’eternità. Nel 2014 non esiste più nulla di quel mondo. Anche i dirigenti rimasti ancora in vita sembrano tutti defunti, perché non parlano, non scrivono, non s’incontrano. E un bene o un male? Un grande filosofo diceva: tutto il reale è razionale. La famiglia rossa dell’Emilia-Romagna si è disfatta. Quando vedo in tivù il cranio mussoliniano di Bonaccini e la faccia spaventata di Richetti penso a due naufraghi. Anche la rossa Toscana ha ceduto il passo alle donne renziane, ragazze da calendario con il tacco alto. Renzi, il nuovo padrone, ha il viso da bamboccio fiorentino e il pugnale in mano.

Mi domando quale sarà il burrone nel quale cadrà. Insieme a tutti noi.

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