ROMA – Lo scoop, perché di scoop si tratta, lo firmano sul Corriere della Sera di venerdì 17 aprile Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella. Enrico Tranfa, presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano nel processo Ruby, uno dei tre giudici che ha firmato la sentenza di assoluzione dopo la condanna in primo grado si è dimesso. Lo ha fatto subito dopo aver messo la firma. Se non fosse stato anche presidente avrebbe potuto non firmare e depositare formale atto di dissenso dalla sentenza. Da presidente no: avrebbe invalidato il tutto.
Quindi Tranfa ha firmato le motivazioni e poi, con 15 mesi di anticipo ha lasciato la magistratura. Non ha chiesto il trasferimento ad altra sede o altro incarico. Ha detto basta. Spiegano Ferrarella e Guastella quello che appare in effetti il collegamento più ovvio: lascia perché non digerisce e non accetta la sentenza che ha firmato. Una protesta muta o quasi. Quando il Corriere esce in edicola, infatti, Tranfa non ha ancora rilasciato nessuna dichiarazione.
Poi, in mattinata di venerdì parla. Per modo di dire. All’Ansa rilascia due dichiarazioni laconiche. Non conferma e non smentisce. Si limita a dire che “nessuno è indispensabile” e che “in tutta la mia vita non ho fatto nulla d’impulso”. Scelta ponderata, insomma, presa probabilmente molto prima di firmare le motivazioni.
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L’articolo di Ferrarella e Guastella
Ha firmato. E poi si è dimesso. Per protesta. Con un gesto senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, Enrico Tranfa, il presidente del collegio della Corte d’Appello di Milano nel processo Ruby, ieri si è dimesso di colpo dalla magistratura con una scelta che svela così il suo radicale dissenso dalla decisione, maturata nella terna del suo collegio, di assolvere l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalle imputazioni di concussione e prostituzione minorile che in primo grado ne avevano invece determinato la condanna a 7 anni di reclusione.
Tranfa si è dimesso immediatamente dopo aver firmato ieri mattina le 330 pagine della motivazioni della sentenza d’appello Berlusconi-Ruby, frutto della camera di consiglio del 18 luglio scorso e dei mesi di confronto con i colleghi Ketty Locurto e Alberto Puccinelli. Dimesso non dal collegio, e neppure solo dalla seconda sezione della Corte d’Appello di Milano che presiede: dopo 39 anni in toga, ha scelto di andare in pensione con 15 mesi di anticipo sul previsto. Un gesto di protesta muto, non accompagnato da alcuna spiegazione formale al Csm e agli uffici giudiziari.
In un collegio di Tribunale o di Appello accade tutti i giorni che su una singola ordinanza o sulla sentenza a fine processo, uno dei giudici vada in minoranza rispetto agli altri due, è l’assoluta fisiologia nel segreto della camera di consiglio. Ma a giudicare dal clamoroso gesto delle dimissioni, nel processo Berlusconi-Ruby la qualità del dissidio fra i tre componenti sembra avere raggiunto per Tranfa livelli che deve aver giudicato incompatibili finanche con la possibilità di continuare ad amministrare la giustizia, a pronunciare sentenze e a celebrare processi a imputati comuni usando lo stesso metro di valutazione e il medesimo standard probatorio utilizzati per analizzare le prove a favore o contro l’ex premier, e per infine assolverlo.
Se Tranfa fosse stato solo uno dei tre giudici, e non anche il presidente del collegio, in teoria avrebbe potuto — come a volte si intuisce scorrendo l’ultima pagina di talune sentenze — lasciar intravvedere la volontà di smarcarsi dalla decisione non firmando le motivazioni depositate ieri: ma per legge il presidente di un collegio non può non firmare la sentenza, altrimenti l’atto è come se non esistesse.
Sono già casi rarissimi quelli nei quali un giudice dissenziente dalla maggioranza degli altri due, ove paventi il rischio di vedersi poi contestare a distanza d’anni la responsabilità per un colossale errore giudiziario da cui ritiene di dissociarsi, depositi a propria futura tutela in una cassaforte di cancelleria la cosiddetta «busta», cioè la prova del proprio disaccordo.
Ma ieri Tranfa non si è limitato a fare neppure questo. Niente «busta». Ha invece optato per una scelta ben più radicale, mai verificatasi prima: ha messo la firma dove non poteva non metterla, sulla sentenza rispetto alla quale era evidentemente in assoluto dissenso, e però si è contemporaneamente dimesso da magistrato.
Un fulmine a ciel sereno per quasi tutti, l’asciutta comunicazione pervenuta all’Inps ieri. Ma non per tutti. Nelle scorse settimane, infatti, a Palazzo di giustizia c’erano stati magistrati che, nelle pause di una udienza di un processo ordinario, avevano chiesto a Tranfa, vedendolo pallido e teso, se si sentisse bene, ricevendone una risposta evasiva. E a suo modo sorprendente era stato ieri mattina anche il deposito delle motivazioni della sentenza arrivato nell’ultimo giorno dei termini, dato che fino alla settimana scorsa il tam-tam del Palazzo di giustizia dava per certa la richiesta di una breve proroga.
Ieri, dopo il deposito delle motivazioni in cancelleria, Tranfa ha lasciato l’ufficio. E a nulla è valso telefonargli in serata per capire cosa fosse accaduto e per quali ragioni: «Le mie dimissioni sono lì, non ho altro da aggiungere».
Neanche i suoi trascorsi professionali danno sponda a particolari interpretazioni. Campano del medesimo paese (Ceppaloni) dove è nato Mastella, 70 anni compiuti a fine settembre, collocabile nella corrente di centro di «Unità per la Costituzione» (mentre, se proprio si vuole incasellare la relatrice delle motivazioni, Locurto è vicina alla corrente di sinistra di «Area/Magistratura democratica»), Enrico Tranfa è entrato in magistratura nel 1975, con primo incarico da giudice a Oristano. A Milano dal 1979 come giudice penale, poi giudice civile, quindi all’Ufficio dei gip quando nel 1989 entra in vigore il nuovo codice, per tre consiliature è stato eletto nel Consiglio Giudiziario del distretto. Presidente del Tribunale del Riesame nel 2002, nel 2010 è al Tribunale di Sorveglianza di Varese, e dal 2012 di nuovo a Milano in Corte d’Appello dove presiede la seconda sezione penale. O meglio, presiedeva. Fino alle dimissioni-choc di ieri.
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