Giorgio Napolitano, 9 anni dopo: santo per Scalfari, Berlusconi ingrato

ROMA – A mezzogiorno di mercoledì 14 gennaio 2015 Giorgio Napolitano, date le dimissioni alle 10:35,  lascia il Quirinale e a piedi va nella sua abitazione privata che si trova a pochi minuti di distanza. Non oggi ma già domani, prevede il Sole 24 Ore, Napolitano, neo senatore a vita, sceglierà il suo futuro a Palazzo Madama: “probabilmente si iscriverà al gruppo misto, molto probabilmente alla commissione Esteri anche se c’è l’alternativa della Affari costituzionali”.

Sui giornali del 14 gennaio, molti articoli di lode, qualcuno di spregio. Un po’ maramaldesco il Giornale dei Berlusconi, che titola a tutte colonne:

“Napolitano, fine dell’imbroglio”

e sotto:

“Oggi vanno in archivio nove anni di partigianerie, con la ciliegina del Governo Monti”.

Bella e sublime ingratitudine: tra le cose peggiori di Napolitano c’è quella di avere dato il tempo, durante la penultima crisi di Berlusconi, a Berlusconi stesso di fare incetta di senatori per sopravvivere al voto di sfiducia. E nessuno toglie dalla testa ai pochi che ragionano in Italia che la scelta di Monti sia stata concordata con Berlusconi stesso. Non c’era altro da fare, forse, visto che Berlusconi comunque in voti in parlamento li aveva e li ha e visto anche che nessun voleva le elezioni redentrici e chiarificatrici. Mario Monti è stato forse il peggiore primo ministro della storia della Repubblica italiana, ma chi ce lo ha voluto, dopo averlo mandato a fare il Commissario europeo che ancora se lo ricordano, è stato proprio Berlusconi, il quale, il 24 otobre 2012, disse:

“Faccio un passo indietro per amore dell’Italia Lascio il Pdl ai giovani” e di Monti disse di più: “Non rinuncio all’idea che guidi i moderati”.

Al Giornale fa eco Libero:

“Finalmente se ne va”.

Toni analoghi, non su un giornale, ma sul suo account Twitter usa Beppe Grillo, che invita senza termini Napolitano a sparire dalla vita politica. Non dice così ma il senso è quello: “Napolitano rinunci alla carica di senatore a vita”.

Ben diverso il tono degli altri giornali, fino alla celebrazione quasi santificazione di Eugenio Scalfari su Repubblica. La lettura è quella di una pagina di storia, che copre quattro generazioni:

“La vita politica di Napolitano ebbe inizio, come quella di molti giovani della sua e della mia generazione, con l’iscrizione all’università di Napoli nell’autunno del 1942. Ho letto nella sua autobiografia e lui stesso me l’ha raccontato nei nostri numerosi e amichevoli conversari, che i suoi amici erano di sentimenti antifascisti e utilizzavano cautamente le opportunità offerte dalle diverse articolazioni del Guf di Napoli, compreso il giornale “IX maggio”.

I Guf (Gruppi universitari fascisti) erano in molte città sedi di università, organizzazioni dove i giovani manifestavano sentimenti di “fronda” e il partito concedeva questa larvata opposizione consapevole che i giovani non accettano quasi mai passivamente le visioni politiche della precedente generazione. A me capitò a Roma qualche cosa di analogo ma a differenza di Napolitano i miei amici ed anche io eravamo fascisti o perlomeno tali ci credevamo. A me capitò però di essere espulso dal Guf nell’inverno del 1943 per un articolo scritto su “Roma Fascista”: evidentemente la fronda aveva sorpassato i limiti che il partito poteva sopportare.
Napolitano, dopo questo periodo di antifascismo senza partito di riferimento, si orientò verso i comunisti e si iscrisse a quel partito nel 1945, quando il Sud era già stato liberato dalle armate angloamericane e i partiti antifascisti non erano più clandestini.
Ricordo queste vicende perché altrimenti non si capirebbe la storia politica di Giorgio Napolitano e di altri militanti del Pci.
La “doppiezza” di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci, al di là dell’ideologia marxista leninista che durò fino allo “strappo” di Berlinguer, si verificò soprattutto in un pragmatismo che Togliatti applicò con tratti molto evidenti. Anzitutto con il riconoscimento del governo Badoglio nel 1944 che durò fino alla liberazione di Roma quando fu sostituito da Bonomi. Ma soprattutto dalla decisione di sostenere la nascita dell’assemblea costituente che fece del Pci un partito italiano e costituzionale e non una semplice sezione italiana del Cominform come era per esempio il Partito comunista francese.
Togliatti, quando fu oggetto di un attentato molto grave che rischiò di costargli la vita, ordinò che il partito non facesse dimostrazioni di alcuna violenza. Durante i dibattiti alla Costituente cercò accordi con la Dc tutte le volte che era possibile e votò addirittura per il riconoscimento costituzionale del trattato lateranense e del Concordato (articolo 7) che videro invece il voto contrario del Partito socialista e del Partito d’azione.
Napolitano a quell’epoca era ancora un dirigente locale ed era particolarmente vicino a Giorgio Amendola che condivideva pienamente la “doppiezza” togliattiana accentuandone però il costituzionalismo. Sarebbe stato molto favorevole ad una unificazione col Partito socialista di Pietro Nenni nel periodo in cui quel partito era ancora alleato del Pci. Quando però l’alleanza si ruppe l’ipotesi di una riunificazione diventò impensabile.
Nel frattempo ci fu la repressione in Ungheria del tentativo di quel paese d’uscire dalla “tutela” sovietica. Intervennero le truppe sovietiche e i loro carri armati impedirono che quel tentativo avesse successo. Il Pci non era ancora nelle condizioni di rompere i suoi legami ideologici e politici con Mosca e fu dunque solidale con la repressione, ma molti intellettuali e dirigenti, tra i quali ricordo Antonio Giolitti, uscirono dal partito.
Napolitano, per quanto so, rimase profondamente turbato da quella repressione ma restò fedele alla linea di Togliatti. Un mutamento comunque avvenne perché poco tempo dopo nacque una vera e propria corrente guidata da lui e da Macaluso, che fu chiamata “migliorista” o “riformista” e che si schierò pubblicamente contro Mosca quando ci fu una seconda repressione a Praga contro il socialismo di Dubcek. Napolitano in quegli anni era deputato e al tempo stesso dirigente nazionale del partito; sempre più lontano dall’ideologia comunista, la corrente da lui guidata puntava verso una nuova alleanza con la socialdemocrazia europea. In questo senso accolse positivamente la segreteria di Berlinguer, della quale tuttavia fu anche critico perché, distaccatosi da Mosca, restò tuttavia comunista mentre Napolitano sempre più puntava verso un accordo con l’Internazionale socialista europea.

Ma parliamo ora del Presidente della Repubblica che proprio oggi lascerà il suo secondo mandato. È il solo caso d’un incarico al Quirinale della stessa persona che aveva dato le dimissioni alla scadenza del suo settennato. La Costituzione non dice nulla a questo proposito il che significa che esso è possibile come sono altrettanto possibili le dimissioni anticipate. Del resto il Presidente, accettando il secondo mandato, aveva già preannunciato che non l’avrebbe certo compiuto.
Si apre dunque da oggi una fase della massima importanza e delicatezza per le istituzioni e per il paese.

In che modo Napolitano ha gestito i poteri che la Costituzione gli ha conferito? E fino a che punto ha teso l’elastico? Il nostro è un paese politicamente fragile e la fragilità è pressoché inevitabile perché ha come riscontro la fragilità politica dell’Europa. È un tema che emerge soprattutto in tempi di crisi, quando tutti siamo chiamati a sopportare sacrifici e a veder frustrate le speranze del futuro. Ma non dipende solo da questo. Napolitano ha studiato a fondo la nostra vita pubblica e non soltanto sui libri: l’ha vissuto come dirigente di partito prima e come presidente della Repubblica poi; quello è un osservatorio che spazia sull’intera classe dirigente, non soltanto politica ma economica, professionale, militare, sui docenti, sui tecnici, sugli scienziati, sui giovani che cercano il futuro, sui vecchi che hanno un’esperienza da mettere in comune.
Ebbene, per qualche ragione motivata dalla storia del nostro paese, noi non abbiamo un “establishment”. Abbiamo individui spesso intelligenti, ancor più spesso furbi e amanti del far da sé, ma se per establishment si intende una classe dirigente che anteponga realmente gli interessi collettivi ai propri e della propria più ristretta cerchia, allora l’establishment in Italia non c’è e non c’è mai stato”.

[Questo dell’establishment disinteressato e dedito al pubblico interesse è un mito ciclopico Finché gli italiani non se lo chiariranno e non accetteranno che ci sono le classi sociali, che, con pari dignità, si confrontano e scontrano, non ne usciremo. Purtroppo comunisti e cattolici spostano su un’altra sfera il conflitto, spingendosi a obliterare le classi diverse da quella dominante].

“Napolitano nei quasi nove anni di Quirinale ha fatto il possibile e addirittura l’impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti in quella direzione. Ha trovato persone che erano pronte a mettersi insieme a lui e da lui guidate in questa difficilissima strada. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Sisifo sollevava i massi e li faceva avanzare verso la vetta della montagna, ma è un personaggio mitologico e quindi divino. Non c’è nessuno che abbia quei poteri. Lo si vorrebbe e infatti la nostra immaginazione ne ha creato il mito proprio perché nella realtà non può esistere.
Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé, o almeno così io credo per quanto possa aver capito dei suoi pensieri e della sua diagnosi della realtà. In altri paesi le classi dirigenti, portatrici di una solida visione del bene comune, ci sono e la loro esistenza distingue quei paesi dagli altri. Forse ci sarebbe se l’Europa diventasse un continente federato e non confederato, come ancora è. Napolitano questo lo sa, infatti non ha cessato di ricordare ripetutamente agli italiani ed anche agli europei che il nostro obiettivo è di avanzare sulla strada dell’unità politica dell’Europa”.

Sul Messaggero di Roma Giovanni Sabbatucci:

“Salito al Quirinale in virtù della sua esperienza, del suo equilibrio e della sua lunga milizia parlamentare in epoca di prima Repubblica, Giorgio Napolitano si è trovato, suo malgrado, ad affrontare emergenze di vario tipo, a gestire situazioni anomale rispetto alla fisiologia del sistema, ad assumere infine un ruolo quasi commissariale, colmando i vuoti creati dal malfunzionamento delle istituzioni e dalle difficoltà dei partiti.
Ha dovuto, nel 2008, procedere allo scioglimento anticipato delle Camere in seguito allo sfaldamento dell’esigua maggioranza che sosteneva il governo Prodi. Ha dato vita a quattro esecutivi, gli ultimi tre (Monti, Letta e Renzi) direttamente riconducibili a una sua designazione. Il governo Monti, in particolare, è stato una invenzione presidenziale: una scelta giustificata dalla crisi dell’allora partito di maggioranza e soprattutto dal rischio della bancarotta finanziaria.
Ma tanto politicamente impegnativa da esporre la figura del capo dello Stato a critiche che in effetti non sono mancate (soprattutto nel momento in cui il nuovo presidente del Consiglio si trasformò inopinatamente da traghettatore super partes in giocatore in proprio). È cominciata così, nell’autunno 2011, la fase più tormentata della presidenza di Napolitano, fin allora ai vertici assoluti negli indici nazionali di popolarità. Proprio il ruolo di surroga e di sostegno assunto nei confronti dell’intero sistema ha fatto del capo dello Stato un bersaglio facile e ben visibile contro cui indirizzare gli strali delle forze antisistema e le polemiche più o meno pretestuose di giustizialisti, qualunquisti e contestatori di ogni matrice politica. Che quel ruolo fosse prezioso, e quella presenza difficilmente sostituibile, lo si è visto chiaramente nell’aprile del 2013: quando un Parlamento largamente rinnovato e profondamente diviso (cui solo una pessima legge elettorale consentiva di esprimere una teorica maggioranza) non riusciva a trovare una convergenza abbastanza ampia sul nome del nuovo presidente; e di fatto costringeva Napolitano a rendersi disponibile a un inedito secondo mandato, peraltro limitato nel tempo e legato al realizzarsi di alcune condizioni politiche (in particolare all’avvio delle riforme istituzionali).
Neanche questo atto di estrema responsabilità ha peraltro risparmiato al bi-presidente nuove critiche e insinuazioni velenose, anche da parte di chi aveva sostenuto la sua rielezione. Il che può aiutarci a capire il sollievo espresso da Napolitano alla vigilia del congedo, questa volta definitivo. Ma dovrebbe anche indurci a qualche pubblico ringraziamento nei suoi confronti, e non solo per la sua pazienza e per la sua disponibilità a farsi carico dei problemi del paese.
Al successore di Napolitano non possiamo che augurare un cammino presidenziale meno difficile e agitato di quello che si sta concludendo (un unicum per molti aspetti, e non solo per la sua durata). Ma servirà ugualmente un candidato dotato dell’esperienza e dell’autorevolezza necessarie per affrontare nuovi possibili frangenti difficili e per gestire una transizione istituzionale di cui ancora non si vede l’esito ultimo”.

Il bilancio di Fabrizio d’Esposito sul Fatto non è così santificante, a cominciare dal titolo: “Napolitano oggi scende dal Colle. A mani vuote”:

“Giorgio Napolitano  arriva stremato, quasi insofferente all’addio annunciato già nel discorso del suo secondo insediamento, nella primavera del 2013. La conferma è nelle parole affidate a un bimbo nella piazza del Quirinale, dov’era in corso un’iniziativa della polizia. Napolitano, oltre a confidare di “non navigare su Internet” (e questo la dice lunga sulla distanza dal fenomeno fuffoso del renzismo), ha rivelato di essere “contento di tornare a casa” e ha paragonato lo sterminato palazzo di cui è stato ospite sin dal 2006 a una galera: “Qui si sta bene, è tutto molto bello ma è un po’ una prigione. A casa starò bene e passeggerò”. Come ultimo atto del brevissimo settennato bis, il capo dello Stato ha salutato i corazzieri e i dipendenti del Quirinale. Oggi la lettera di dimissioni che sarà in triplice copia, indirizzata al supplente Grasso, alla presidente della Camera Boldrini (per la convocazione dei grandi elettori), al premier.
L’addio immaginato da Napolitano quasi due anni fa era completamente diverso. Certo, non con Renzi a Palazzo Chigi e soprattutto non con un percorso riformista ancora aperto e incerto. Il re va via senza aver incassato nulla di quanto chiesto ai partiti del Sistema al momento della rielezione. Questa è la nuda e cruda verità. In più, altra variabile non prevista, non pensava di far coincidere il finale della sua parabola monarchica con l’ascesa del giovane sindaco di Firenze. L’escalation è nella cronaca di quest’ultimo anno. Accettata e digerita con realismo togliattiano la decapitazione in diretta streaming del “protetto” Enrico Letta, Napolitano ha avuto da subito una coabitazione difficile con Renzi, culminata nell’incredibile vicenda del nuovo ministro degli Esteri, quando il capo dello Stato ha preteso e ottenuto che non venisse nominata la sconosciuta Quartapelle.
Dall’estate in poi il cruccio del capo dello Stato è stato uno solo: superare incolume la temutissima deposizione al processo sulla trattativa tra Stato e mafia, avvenuta al Quirinale il 28 ottobre scorso. È stato a quel punto che la decisione di non rimanere oltre gennaio è diventata irrevocabile. Soprattutto per lepressioni della moglie Clio, preoccupata per le condizioni del marito quasi novantenne. Una fase delicatissima quella autunnale. Da un lato le spinte di Renzi e dei renziani per costringerlo a rimanere almeno fino alla primavera (e sponsorizzate da una parte della cerchia ristretta che circonda il capo dello Stato), dall’altro la consapevolezza dell’età e degli acciacchi e un fastidio quasi fisico per i giochini tattici del premier. Di qui le voci fatte trapelare agli inizi di novembre sulle sue condizioni di salute e sulla volontà dichiarata di non voler essere lui “il presidente chiamato a sciogliere le Camere”.
Lo sccontro con Renzi è stato continuo e non può essere risolto con le blindature ricevute dal premier negli ultimi discorsi. Da ex comunista ortodosso del Novecento, Napolitano ha difeso innanzitutto il Sistema. Semmai l’opinione del capo dello Stato sull’ex sindaco di Firenze è in quel “banditore di smisurate speranze” pronunciato sempre a dicembre in un convegno all’Accademia dei Lincei a Roma. L’ormai ex presidente della Repubblica ha tentato di “salvare Renzi da se stesso”, secondo un’opinione largamente diffusa al Quirinale, ma l’impressione è rimasta negativa anche dopo l’ultimo colloquio. Ed è per questo che Napolitano tenterà comunque di far sentire la sua voce da senatore a vita. Resta da capire quanto sarà ascoltato. Per nove anni i suoi moniti sono sempre caduti nel vuoto”.

Foto LaPresse

 

 

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