ROMA – “Le larghe intese sono finite”. Napolitano apre alla verifica e Forza Italia chiede la crisi. L’articolo di Umberto Rosso su Repubblica:
Napolitano, a sorpresa, apre a Forza Italia: dice di sì ad un nuovo passaggio parlamentare per il governo Letta, dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza. Dopo un’ora e mezzo di colloquio con Brunetta e Romani, una nota dell’ufficio stampa del Quirinale chiarisce che «ci sarà senza dubbio un passaggio parlamentare che segni la discontinuità politica tra il governo delle larghe intese e il governo che ha ricevuto la fiducia sulle legge di stabilità». Forme e tempi del passaggio «saranno oggetto di una consultazione del presidente della Repubblica con il presidente del Consiglio». Incontro già fissato: lunedì pomeriggio Enrico Letta salirà al Quirinale appunto per stabilire le modalità della nuova verifica, che fin qui sembrava essersi esaurita col voto di fiducia sulla legge di stabilità, come aveva lasciato intendere lo stesso premier e anche il capo dello Stato. Per stabilire insieme se dovrà trattarsi di un semplice dibattito in aula, per prendere atto del passaggio di Fi all’opposizione, e magari non concluso nemmeno da un voto. Oppure se e come toccare eventualmente anche il programma e la composizione dell’esecutivo, mettendo mano ad un rimpasto, tasto però altamente sensibile. Fino all’ipotesi, del tutto teorica, che Letta si presenti dimissionario e si apra una crisi formale. Ma il presidente del Consiglio si mostra sicuro e tranquillo, nonostante le voci che parlano di un esecutivo spiazzato dalla decisione di Napolitano, e da Palazzo Chigi trapela «piena sintonia con il Colle» rispetto ad un passaggio parlamentare che «potrà essere l’occasione per un rafforzamento ulteriore dell’azione di governo e che, d’altronde, era stato ampiamente considerato come nel novero delle possibilità già nei giorni scorsi». Angelino Alfano conferma la piena lealtà all’esecutivo, «noi siamo decisivi per il governo, e lo sosterremo in questo passaggio. Vedremo se lofarà cadere Renzi».
Soddisfazione fra i forzisti per l’intervento del capo dello Stato, anche se Renato Brunetta nell’incontro al Colle aveva chiesto l’apertura formale della crisi: «Letta si presenti dimissionario in Parlamento, perché con la nostra uscita la natura dell’esecutivo è cambiata e le larghe intese non esistono più». Il capo dello Stato, spiega Altero Matteoli, che faceva parte della delegazione (una decina di parlamentari, compresi i due vicecapogruppo Gelmini e Bernini), «ha scelto una via di mezzo, cioè un passaggio parlamentare che dovrà tenersi in tempi brevissimi, ma è stato molto attento alle nostre richieste ». Gli umori però non sono tutti così soddisfatti all’interno di Forza Italia, dove la mossa di Napolitano viene anche interpretata come un gesto di distensione che però non accoglie nella sostanza le rivendicazioni avanzate: il governo resterà in piedi perché ha in cassaforte i voti di Alfano e il destino di Berlusconi sulla decadenza è ormai segnato. Il tormentone della grazia del resto non si è riaffacciato durante il lungo incontro al Quirinale, i capigruppo forzisti non l’hanno sfiorato dopo l’ultima sortita dell’inquilino del Colle che ci ha messo una pietra sopra.
Nel day after Berlusconi cova la vendetta “Non daremo tregua, Letta deve lasciare”. L’articolo di Carmelo Lopapa su Repubblica:
È il giorno della ritirata e del silenzio amaro, Silvio Berlusconi nelday afterè il boxeur che realizza solo al risveglio di essere andato al tappeto. «Dobbiamo far capire agli italiani cosa è successo, voi dovete aiutarmi, non lo hanno capito realmente, andate in tv, spiegate alla gente» è il tormentone che si sentono ripetere i suoi al telefono. Un leader che appare stordito, stanco, ma non rassegnato, dicono, semmai ossessionato più di prima dall’incubo arresto, quando riprende il comando delle operazioni da Arcore, dove è «fuggito» la sera prima subito dopo il comizio e il voto.
Una quiete rabbiosa, tuttavia. L’ipotesi della presentazione di una mozione di sfiducia non viene esclusa, adesso. «Non dobbiamo dare tregua al governo Letta-Alfano, pretendiamo l’apertura della crisi, le dimissioni prima che vadano avanti, altrimenti le riforme con noi se le scordano, dovete dirlo a quel signore al Colle» è l’ordine perentorio che Brunetta e Romani, capigruppo, ricevono prima di salire al Quirinale. Conloro, la delegazione forzista composta da tutti i vice (Bernini e Gelmini) e i presidenti di commissione. Il capo li avrebbe voluti la notte prima, dopo il voto di decadenza, in presidio con candele in mano sotto le finestre di Napolitano. Spiegano che quando comunicano l’esito dei 90 minuti di braccio di ferro col presidente della Repubblica, Berlusconi non abbia gioito: «È una presa in giro, protegge il governo, non vuole le dimissioni, vogliono chiuderla con un voto di fiducia». La possibilità ventilata da Arcore allora è che si presenti una mozione di sfiducia, estremo atto di sfida ad Alfano e i suoi ministri ormai dall’altro lato della barricata.
Da Villa San Martino il Cavaliere si muove solo un paio d’ore a metà giornata, per una visita dentistica a Milano. Poi si concede il pranzo coi figli maggiori e la consueta riunione con Confalonieri e i vertici delle aziende che lunedì scorso era saltata, per la conferenza stampa a Roma sulle “carte americane”. Accanto a lui solo Francesca Pascale, Maria Rosaria Rossi, i collaboratori, non vuole parlare con altri, fa sapere di aver bisogno di riposo a chi lo cerca dal partito, così almeno fino a ora di pranzo. In effetti dorme a lungo. Alcuni riusciranno a contattarlo dal pomeriggio, almeno i big che poi sono stati ricevuti al Quirinale. Racconteranno dell’ex premier provato. Come se avesse realizzato solo ieri, realmente, quel che era accaduto. Sempre più preoccupato per un ipotetico arresto. «Sono privo di tutele, qualsiasi pazzo può buttarmi dentro, pensate quanti pm vorrebbero fare la carriera di Di Pietro ».
Legge elettorale, è ancora stallo “Aspettiamo Renzi per trattare” L’ipotesi di ripartire dalla Camera. L’articolo di Francesco Bei su Repubblica:
«Se non si muoverà il Parlamento» prima della sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, «a quel punto si muoverà il governo». La minaccia del ministro Gaetano Quagliariello movimenta una giornata segnata dall’ennesimo rinvio nella commissione affari costituzionali del Senato. Stavolta il pretesto lo fornisce proprio il nuovo centrodestra (ironicamente il partito di Quagliariello), che chiede con Andrea Augello qualche giorno di tempo «per decidere quale posizione prendere» sulla riforma. I senatori si rivedranno lunedì, il 2 dicembre, alla vigilia della riunione della Consulta chiamata a valutare l’ammissibilità del ricorso contro la legge Calderoli.
Ma la vera notizia è un’altra e non appare nelle dichiarazioni ufficiali. Dopo aver rappresentato al Colle la paralisi sulla legge elettorale e sulla riforma costituzionale, i ministri Quagliariello e Franceschini, d’intesa con Letta e i capigruppo di maggioranza, decidono che è inutile andare avanti a vuoto e fermano le macchine. Manca infatti al tavolo da gioco ilplayerprincipale: il prossimo segretario del Pd. Tanto vale aspettare dieci giorni e trattare la materia direttamente con Matteo Renzi, per stringerlo a un’intesa che blindi la maggioranza. E così sarà fatto, spostando tutta la riforma aMontecitorio, proprio come chiedevano i renziani da tempo.
Dunque nessun decreto o disegno di legge del governo sul Porcellum, al massimo il premier si rivolgerà al Parlamento fissando alcuni paletti irrinunciabili. Tanto che il ministro Franceschini, alTg3 sfuma sull’ipotesi di un ddl, parlando genericamente di «un’iniziativa per spingere». La sostanza non cambia: la nuova maggioranza politica cercherà un accordo al proprio interno su un modello elettorale che vada bene sia a Renzi che ad Alfano. «D’altronde — fa notare un esponente del Pd interno alla trattativa — il 3 dicembre non succederà nulla, la Corte costituzionale non dovrebbe decidere prima della fine di gennaio».
La prima vittima della nuova fase politica inaugurata dal passaggio all’opposizione di Forza Italia è il comitato dei 40 immaginato per riformare in maniera più spedita la Costituzione. Giunto alla quarta lettura a Montecitorio (si sarebbe dovuto iniziare a discuterne il 9 dicembre), il tanto discusso ddlcostituzionale, che provocò una grande mobilitazione dei grillini e di molta opinione di sinistra, finirà la sua corsa su un binario morto. Adieu, si torna al vecchio articolo 138: impossibile garantire il quorum dei due terzi necessari per evitare il referendum, il governo avrebbe rischiato il saldarsi di un vasto fronte contrario formato da M5S, Forza Italia e difensori della Costituzione «più bella del mondo». Al Senato resterà solo la riforma del sistema bicamerale.
L’Imu è abolita, ma c’è chi paga. L’articolo di Paolo Russo su La Stampa:
L’Imu sulla prima casa non si pagherà più. Chiedetelo a quelli che in 873 comuni, da Milano a Napoli, da Genova a Bologna per la propria casetta con cantina e garage pagheranno in media 138 euro. La beffa del mattone è nascosta dietro due cavilli normativi. Il primo è contenuto nel decreto «Salva Italia», mai modificato né dal decreto che ha sospeso la prima rata Imu, né da quello di ieri l’altro che ne abroga il saldo di dicembre.
Il codicillo specifica che sulla prima pertinenza, cose come box, cantine, terrazze, l’Imu non si paga, sulle seconde e le terze si. Quindi il 16 del mese prossimo chi oltre al posto auto possiede ad esempio una bella cantina, per quest’ultima dovrà passare alla cassa. Sborsando in media 96 euro, calcola la Uil Servizio politiche territoriali. Che fa anche qualche esempio. Con una cantina di 12 metri quadri e un box per l’auto di 19 in media si pagherà da un massimo di 159 euro a Napoli a un minimo di 86 a Palermo, mentre a Torino l’esborso sarà di 120 euro, a Roma di 130, a Milano di 101, a Firenze e Bologna rispettivamente di 15 e 158 euro. Se poi di pertinenze se ne possiedono ben tre (garage, più terrazza e cantina) allora la tassa lievita in media a 192 euro, con punte di 316 a Bologna, 240 a Torino, 260 nella Capitale e 202 a Milano. Belle sommette, che fin qui riguardano tutti i proprietari di prima casa con due o più pertinenze di tutti i seimila e passa campanili d’Italia. Complessivamente 2 milioni di contribuenti che verseranno nelle casse comunali 194 milioni di euro.
Veniamo ora al secondo cavillo normativo. L’ultimo arrivato, contenuto nel decreto di ieri l’altro, che avrebbe dovuto cancellare con un colpo di spugna l’Imu sulle abitazioni principali per il 2013. Il provvedimento però corrisponde ai comuni solo la metà degli aumenti di aliquota che larga parte di loro ha decretato in corso d’anno sperando di incassare così maggiori trasferimenti dallo Stato, pur sapendo che si stava andando verso la cancellazione dell’imposta. Ma la furbata degli 873 sindaci che hanno deliberato gli aumenti (tra i quali 11 di città capoluogo) si è rivelata l’ennesima fregatura per i contribuenti, che in base al decreto dovranno saldare di tasca propria la metà che manca all’appello.
“I marò rischiano la pena di morte”. L’articolo di Francesca Paci su La Stampa:
Esiste davvero il rischio che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i marò trattenuti in India dal febbraio 2012 con l’accusa di aver ucciso due pescatori al largo del Kerala, siano giustiziati, come ventilato dall’«Hindustan Times»?
Il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino esclude la possibilità della pena capitale avanzata dal quotidiano di Delhi, che ieri mattina aveva anticipato l’esito dell’inchiesta consegnata dalla polizia investigativa (National Investigation Agency) al ministero dell’Interno nella quale, in base a una dura legge contro la pirateria del 2002, sarebbe prevista la condanna a morte. E il governo guidato dal premier Manmohan Singh conferma, smentendo l’ipotesi d’un epilogo tragico (ma non la notizia dell’«Hindustan Times») perché, come già affermato il 22 marzo dal ministro degli Esteri Salman Khushid, la pena capitale si applica solo «nei casi rari tra i più rari». Eppure, interpellato da «La Stampa», il giornalista autore del retroscena insiste che la storia non è affatto chiusa perché la Corte, a cui spetta l’ultima parola, è indipendente dalla volontà politica.
La giornata più lunga della diplomazia italo-indiana inizia con lo scoop dell’«Hindustan Times», secondo cui la Nia avrebbe deciso di applicare ai due fucilieri della petroliera Enrica Lexie la «Legge per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima e le strutture fisse sulla piattaforma continentale» (Sua Act), l’unica che l’India può far valere al di fuori delle sue acque territoriali (l’incidente è avvenuto oltre, a 20,5 miglia dalla costa).
Troppi, poveri ma belli. I musei non fanno rete. L’articolo di Stefano Rizzato su La Stampa:
A guardarli da vicino, somigliano tanto a tante nostre aziende. Quasi sempre di piccola o media grandezza, poco propensi a comunicare, spesso incapaci di fare rete e aprirsi davvero all’estero. Eppure pieni di qualità e in grado di generare eccellenze famose e apprezzate in tutto il mondo.
A guardare da vicino musei, aree archeologiche e monumenti d’Italia – statali e non – è la prima indagine completa sul settore, compilata dall’Istat in collaborazione con il Ministero dei beni culturali. Un censimento che ha contato ben 4.588 strutture: una ogni tre comuni italiani e 13 mila abitanti, una e mezza ogni cento chilometri quadrati.
La costellazione non potrebbe essere più varia e diversificata. Soprattutto per capacità di attrarre visitatori. Oltre metà del pubblico, infatti, finisce per concentrarsi in tre regioni: Toscana (22,1%), Lazio (20,1%) e Lombardia (8,8%). A staccare il 30 per cento dei biglietti totali è lo 0,3% di musei e simili, la quota che riunisce le prime 15 strutture di una classifica parecchio allungata. Sono i colossi della cultura italiana, una lista che include Colosseo e Uffizi, Palazzo Ducale e scavi di Pompei, insieme ai pochi altri centri capaci di generare ciascuno circa un milione di ingressi l’anno.
I dati si riferiscono al 2011, ma restituiscono un’immagine nota. Quella di un’Italia, che procede a due velocità. Da un lato c’è una sorta di serie A della cultura: poche decine di realtà che rappresentano la parte più nota, internazionale ed efficiente del sistema. Dall’altro, troviamo centinaia di strutture disperse sul territorio e che a volte rischiano l’oblio. Basta guardare i dati sui musei di Abruzzo e Molise, che – in media – non arrivano a 4.500 ospiti l’anno e vanno avanti al ritmo non proprio eccezionale di dieci o 15 visite al giorno.
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