Il fantasma del processo Ruby. Francesco Bei, Repubblica

di Redazione Blitz
Pubblicato il 11 Luglio 2014 - 09:02 OLTRE 6 MESI FA
Ruby in aula a Milano (foto Lapresse)

Ruby in aula a Milano (foto Lapresse)

ROMA – “Cosa c’entra una ragazza marocchina – scrive Francesco Bei di Repubblica – con il processo costituente in corso al Senato? Molto, moltissimo se si chiama Ruby El Mahroug“.

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Perché è proprio al giudizio d’appello in corso a Milano nei confronti di Silvio Berlusconi che tutti — i frondisti Pd in primis — rivolgevano ieri gli occhi per capire che fine farà la riforma Renzi. Il 18 luglio i magistrati si chiuderanno infatti in camera di consiglio per decidere se confermare la condanna a sette anni. E nelle stesse ore, a Palazzo Madama, i senatori saranno impegnati nei voti finali sul disegno di legge Delrio-Boschi: tra renziani e ribelli è già partita una gara che intreccia questa scadenza fatidica. «Il nostro obiettivo — confida sottovoce in Transatlantico il dem Paolo Corsini a Pino Pisicchio — è tirarla per le lunghe fino al 18 luglio. Poi cosa accadrà in caso di condanna di Berlusconi? Forza Italia salterà in aria e tutto potrà essere rimesso in discussione».
Il premier è il primo a essere consapevole di questo rischio. Si spiega così l’insistenza con la quale il ministro Boschi ha spinto ieri fino all’ultimo affinché il testo fosse incardinato in aula il prima possibile, senza ulteriori rinvii. Proprio un ragionamento sulla giustizia del resto è quello che ha tenuto banco ieri mattina a palazzo Grazioli tra Berlusconi, Verdini, e Ghedini. Un vertice che è servito a ribadire una convinzione che nel leader forzista si è fatta certezza. Quella relativa alla grazia. «L’unica speranza per avere la grazia — spiega un forzista vicino al cerchio magico — è restare seduti al tavolo delle riforme. Dopo aver riscritto il Senato e il Titolo V passeremo alla giustizia. A quel punto sarà Renzi stesso a spendersi per non farmi andare in galera ».

Il nuovo corso garantista del Pd sta facendo ben sperare Berlusconi. Sulla soglia degli ottant’anni, con un premier non ostile a Palazzo Chigi e la riforma della giustizia scritta a quattro mani con il Pd, anche la condizione posta nel 2013 da Napolitano — il temuto passo indietro dalla politica — diventerebbe meno oneroso. Ma sono discorsi che gli uomini più vicini al leader accettano malvolentieri di fare, quasi che il solo parlarne potesse compromettere l’operazione. Intanto c’è da portare a casa il risultato sulle riforme. Un obiettivo per niente scontato. Come si è visto ieri mattina, quando in commissione l’accordo faticosamente raggiunto è sembrato sfumare per un’alzata di sopracciglio di Roberto Calderoli. Il fatto è che il relatore leghista si era accorto di un dettaglio non secondario nascosto in un emendamento concordato nel triangolo Pd-Governo-ForzaItalia.
L’emendamento su cui Paolo Romani, il ministro Boschi e Anna Finocchiaro avevano trovato l’intesa soddisfaceva pienamente gli «azzurri» e i democratici, ma poteva rivelarsi una minaccia per tutti gli altri. Il meccanismo prevedeva che in ogni consiglio regionale i senatori fossero nominati da ciascun gruppo «proporzionalmente» alla loro consistenza. Visto che ogni regione manderà a Roma solo pochi senatori, è chiaro che Pd, Fi e M5s si sarebbero accaparrati tutti i posti disponibili. Calderoli, tornato a Roma dopo un ricovero in ospedale, appena ha capito l’inghippo ha fatto sal- tare tutto ritirando la sua firma e portandosi dietro anche Ncd e Sel. Da qui l’estenuante mediazione durata tutto il pomeriggio tra Finocchiaro, Boschi, Calderoli e i capigruppo di maggioranza. Fino alla vittoria finale del fronte dei piccoli. «Qualcuno oggi ha dovuto calare le braghe », ghignava soddisfatto Calderoli a fine giornata. Ma dietro il braccio di ferro sull’emendamento si è iniziato a giocare il primo tempo di un’altra partita, ancora più importante. Quella della nuova legge elettorale. Raccontano infatti che sia stato proprio l’Italicum il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Lega e Ncd sono tornati alla carica sulle soglie di sbarramento troppo elevate: sia quelle interne alla coalizione sia quella per i partiti che si presentano da soli. Tutto si tiene. Vista la fronda interna al Pd e a Forza Italia, Renzi ha bisogno dei voti di Alfano e di Salvini per far passare l’abolizione del Senato elettivo. In cambio i piccoli gli hanno chiesto di modificare l’Italicum.
A complicare ulteriormente il cammino della riforma ci si mette la discussione interna a Forza Italia, dove ieri è finalmente venuto allo scoperto il fronte ribelle con una richiesta, firmata da 22 senatori e rivolta al presidente Grasso, di rimandare di un giorno la discussione in aula della riforma Renzi. Numeri consistenti, che hanno costretto Denis Verdini a intervenire nell’assemblea dei senatori per ribadire la volontà del capo. Con toni perentori: «I patti si rispettano dalla A alla Zeta. Chi è contrario sappia che mette in discussione una decisione presa da Berlusconi ». Ad affrontare a muso duro Verdini ci si è messa Cinzia Bonfrisco. «Verdini dice che Berlusconi vuole questa riforma. Ma io lo voglio sentir dire da lui in assemblea, poi mi regolerò». Insomma, la situazione interna resta tesa. E lo ha dimostrato anche il pranzo con gli eurodeputati a Palazzo Grazioli, occasione colta da Raffaele Fitto per ribadire al leader tutte le perplessità sulla «fretta da Gran Premio di Formula 1» con cui il premier vuole archiviare la pratica Senato. Da domani al 18 luglio ogni giorno sarà sudato.