Il grande accusatore Eni “Il rais nigeriano mi disse: Descalzi è ai miei ordini”

Il grande accusatore Eni “Il rais nigeriano mi disse: Descalzi è ai miei ordini”
Il grande accusatore Eni “Il rais nigeriano mi disse: Descalzi è ai miei ordini”

ROMA – “A chi dovevano essere retrocessi i 200 milioni di dollari caricati a titolo di mediazione sul prezzo dell’acquisizione da parte di Eni del giacimento nigeriano OPL245? – scrivono Carlo Bonini e Emilio Randacio di Repubblica – Chi, ai vertici del colosso petrolifero, manovrò al di là di ogni ragionevole azzardo perché quel fiume di contanti venisse riconosciuto a un “facilitatore” dall’ignoto pedigree e sprovvisto di un valido mandato a vendere? E ancora: perché Eni dovette ricorrere a un mediatore pur avendo un rapporto diretto con il proprietario del giacimento? Chi, insomma, ha sin qui mentito sull’acquisizione per 1 miliardo e 300 milioni di dollari di OPL245 da parte di Eni e Shell?”

Prendiamo atto della asserzioni di Vincenzo Armanna che hanno evidenti profili diffamatori e ovviamente daranno seguito a tutte le azioni legali a tutela dell’immagine di Eni e dei suoi manager”, è il commento di un portavoce dell’Eni, che aggiunge:

“Teniamo a sottolineare che Vincenzo Armanna fu licenziato da Eni per interessi personali e gravi violazioni del codice etico. Eni ribadisce l’estraneità dell’azienda da qualsiasi condotta illecita in relazione all’acquisizione del blocco opl 245 in Nigeria”.

L’articolo completo:

L’uomo che ha deciso di ricostruire con “ Repubblica” l’intera storia, di dare delle risposte (naturalmente le sue) a quelle domande, è un siciliano di 42 anni, un ex dirigente dell’Eni. E il suo nome è Vincenzo Armanna. Il 30 luglio scorso, accompagnato dall’avvocato Fabrizio Siggia, ha infilato spontaneamente un ufficio del palazzo di Giustizia di Milano. E, per undici ore, ha risposto alle domande dei pm Fabio De Pasquale, Eugenio Fusco e Sergio Spadaro, i tre magistrati che lo indagano per corruzione internazionale insieme a Paolo Scaroni (ex ad di Eni), Claudio Descalzi (attuale ad di Eni), Roberto Casula (ex vicepresidente Eni per l’Africa e oggi capo dello sviluppo e delle operazioni), Luigi Bisignani, il finanziere Gianluca Di Nardo, il mediatore Emeka Obi, l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Da quel giorno, Armanna si è inabissato, insieme al segreto del suo verbale di interrogatorio. E da quel giorno, il suo nome, la sua “verità” sono diventate un incubo per i vecchi e i nuovi vertici di Eni.
Ora, seduto ai tavolini deserti di un bar, Armanna dice: «In Eni hanno tentato e stanno tentando di distruggere la mia reputazione, la mia storia professionale. E ho letto con incredulità quello che è stato capace di raccontare Descalzi al vostro Gad Lerner. Eppure, in Eni sono stato membro di numerosi cda di società controllate. In Congo, Uganda, Qatar, Arabia Saudita. Per non parlare del mio lavoro in Iran. Ma io non ho paura. Non sono un vinto. Né, come vedete, ho intenzione di nascondermi. Ognuno è libero di credermi o meno, ma come ho detto la verità ai magistrati, così la dirò a voi». Una “verità”, naturalmente, che solo il tempo e le verifiche delle indagini diranno se è tale.
LA MISSIONE IN NIGERIA
Armanna arriva in Nigeria nel 2009, quale “senior advisor” della “Nigerian Agip Oil Company”, consigliere di amministrazione della “Nigerian LNG” e vice presidente delle attività upstream subsahariane di Eni. Lo precede una fama di professionista preparato. Ma, anche, dicono di lui gli amici rimasti in Eni, di «uomo allergico all’appeasement con la catena gerarchica se qualcosa non lo convince». È arrivato nel palazzo del cane a sei zampe nel 2006, dopo essere stato in Fiat e quindi in Ferrovie con Moretti. In Eni ha cominciato agli approvvigionamenti, dove gli viene riconosciuta la qualità del suo lavoro, salvo trasferirlo all’improvviso.
«Nel mio ufficio di Abuja mi misero a esaminare le lettere anonime». Finché — è il dicembre del 2009 — Chief Akinmade, un nigeriano ex dirigente della “Nigerian Agip Oil Company” ed ex assistente del già ministro del petrolio Dan Etete, si presenta con una proposta di vendita del 40 per cento del giacimento OPL245 per 1 miliardo di dollari. Akinmade sostiene di trattare la cessione del giacimento in nome e per conto proprio di Etete, uomo di straordinaria ferocia e altrettanto straordinaria corruzione. Un vecchio “amico” di Eni, che con lui, già nel 2007, aveva avviato trattative proprio per l’OPL245.
L’offerta di Akinmade viene girata in Italia al dirigente con cui Armanna lavora in staff: Roberto Casula, uomo di Descalzi, vicepresidente esecutivo di Eni, chairman della “Nigerian Agip Exploration” e dunque tra le figure chiave della divisione E&P (Exploration and Production). Del resto, OPL245 è un boccone ghiotto. Un giacimento stimato tra i 3 e i 4 miliardi di barili. Ma qui, ecco la prima stranezza.
Dopo quattro giorni dalla prima offerta, arriva via mail una proposta economicamente identica a quella di Akinmade, ma di cui, stavolta, si dice procuratore tale Emeka Obi. Il tipo sostiene di operare attraverso la società “Eleda Partners” e aggiunge di avere un mandato in esclusiva sia da Dan Etete, sia dalla società “Malabu” che, formalmente, era la concessionaria del giacimento. Il 24 dicembre del 2009, Roberto Casula, vicepresidente esecutivo di Eni, invia una lettera con cui manifesta l’interesse della società per la proposta di Obi e lo investe formalmente della mediazione. Un lavoro da 200 milioni di dollari. «È una procedura singolare — chiosa Armanna — che espone e impegna direttamente i vertici dell’Azienda ». C’è un’unica condizione: la prova che Obi agisca effettivamente in nome e per conto di Dan Etete.
LA GABBIA DEI LEONI DI LAGOS
L’ultima settimana di dicembre 2009, Armanna la cerca a Lagos, nella villa lungo il fiume dove vive Etete. «Arrivai su una macchina blindata — ricorda Armanna — scortato da un pick-up con tre dei nostri uomini armati della sicurezza Eni». L’ex ministro del petrolio è con Emeka Obi. «Etete mi condusse nel giardino della villa, facendomi passare sotto un arco formato da due mastodontiche zanne di elefante intarsiate. Sfilammo di fronte a un tempio in marmo, finché non raggiungemmo una gabbia con due leoni. A quel punto, l’ex ministro si rivolse verso di me con un sorriso e, indicandomi le due bestie, mi disse: “Qui è dove finiscono i miei nemici”. Confesso che mi apparve insieme ridicolo e minaccioso, non fosse altro perché quell’uomo viene accusato di aver sterminato le minoranze etniche che rivendicavano la proprietà di alcuni giacimenti. Poi, finalmente, entrammo nel suo studio».
Etete è su di giri. Apre due bottiglie di champagne. Parla in inglese e, a tratti, si rivolge in nigeriano a Emeka Obi. «Cominciò a dire che l’OPL245 non valeva meno di 4-5 miliardi di dollari. Obiettai che il giacimento non era suo,perché non ne aveva ancora pagato la licenza visto che mancavano circa 200 milioni di dollari. E che non esisteva alcuna evidenza di un suo rapporto con la società Malabu, titolare della concessione. Cominciò ad urlare. “Voi bianchi siete i soliti. Tutti uguali!”. Quindi, puntandomi il dito contro mi disse: “Stammi bene a sentire: quando Descalzi non era nessuno prendeva ordini da me”. E poi, indicando Obi: “Perché voi di Eni avete bisogno di lui?”». Armanna prende la porta, ma non prima di assistere a una sfuriata dell’ex ministro a Emeka Obi: “Io non ti do il mandato! Tu vuoi i miei soldi!”. «Chiamai gli uomini della sicurezza e ci allontanammo velocemente. Telefonai a Casula. Gli raccontai lo sgradevole spettacolo e gli riferii le parole di Etete su Descalzi. Gli spiegai che Obi non aveva nessun mandato da Etete. Pensai che la storia fosse finita lì. Ma mi sbagliavo».
LA CONVOCAZIONE DA DESCALZI
A inizio 2010, Armanna viene infatti convocato a Milano da Descalzi. Questa è la sua ricostruzione, ribadita ai magistrati di Milano. «Gli spiegai tutte le mie perplessità e gli dissi che Etete non era un soggetto con cui era opportuno parlare. Gli riferii anche quello che diceva di lui Etete, che ne parlava come del suo maggiordomo, alludendo ai loro rapporti di fine anni ‘90, quando Descalzi era stato a capo della Nigerian Agip Oil Company. Ebbene, Descalzi mi fissò senza muovere un muscolo. Quindi, mi liquidò avvisandomi che la faccenda era seguita direttamente da Milano. Che, insomma, non avrei più dovuto fare ostruzionismo ».
Casula e Descalzi, ora, sono padroni della trattativa. E, nel febbraio del 2010, firmano con Obi il “confidentiality agreement” che obbliga Eni a trattare in esclusiva con lui, per 12 mesi, l’acquisizione del giacimento. «Di fatto, con quell’accordo, l’Eni si consegnava a uno sconosciuto che era un “one man company”, visto che le società attraverso le quali sosteneva di operare — Eleda Partners, Energy venture Partners — erano scatole vuote».
“C’E’ DI MEZZO SCARONI”
Armanna prova a convincere ancora una volta Casula a liberarsi del mediatore nigeriano. Inutilmente, a suo dire. «Mi disse che Obi era legato a Gianluca Di Nardo e che questo Di Nardo era stato partner del noto finanziere Francesco Micheli, il quale, a sua volta, era vicino a Scaroni. Per convincermi di quanto l’amicizia tra Scaroni e Di Nardo fosse solida, mi mostrò anche una lettera anonima che era finita in un cassetto, senza alcuna indagine interna. L’anonimo accusava Di Nardo di insider trading petrolifero insieme a Marco Alverà, altro manager di Eni gradito a Scaroni. Insomma, Casula mi fece capire che dovevo farmi gli affari miei se non volevo entrare in rotta di collisione oltre che con Descalzi anche con Scaroni».
I SOLDI PER GLI ITALIANI
Ad Armanna appare ormai evidente che «Obi è uomo sicuramente di Descalzi. Lo chiamava “ il Ragazzo”, e gli aveva dato un accesso agli uffici di san Donato neanche fosse un manager del gruppo». Ma c’è qualcos’altro che lo inquieta. In quel 2010, ad Abuja, diventa vox populi che i 200 milioni di dollari riconosciuti ad Obi per la mediazione siano «tangenti per gli italiani». «Il primo a parlarmi di “kickbacks” agli italiani, fu uno dei legali di Shell. Mi disse: “Non potete prendervi così 200 milioni. Se proprio volete, trovate un altro sistema. E comunque toglietevi dalla testa che paghiamo anche noi”». Armanna avrebbe insomma a quel punto «la certezza che Obi avrebbe retrocesso parte della somma della sua mediazione agli italiani». E a rafforzarla sostiene contribuisca l’Attorney general nigeriano che, nell’autunno 2010, quando la trattativa per l’acquisizione del giacimento sembra arenarsi, decide di fare la faccia feroce. «Minacciò di arrestarci tutti. E mi disse che sapeva che i 200 milioni di dollari di mediazione di Obi erano insieme “bribes”, tangenti, e un ricatto ad Etete».
Armanna non ha tuttavia prove per dire se quei soldi siano stati o meno retrocessi agli “italiani”. Piuttosto, ha un’informazione confidenziale da una fonte di cui non intende rivelare l’identità. «Rischierebbe la vita. Posso solo dire che mi confidò che della tranche di 400 milioni di dollari trasferiti da Eni ai venditori al momento dell’acquisizione di OPL245, 50 milioni finirono agli italiani. Ma se poi fossero uomini dell’Eni o persone vicine ad Eni, questo non ha saputo dirmelo».
L’INCONTRO CON BISIGNANI
Del resto, ronzano in molti intorno alla faccenda nigeriana. E Armanna ne ha una prova nel novembre del 2010, quando la segretaria di Luigi Bisignani lo convoca in piazza Mignanelli. Armanna e Bisignani non sono esattamente amici. Ma Armanna deve a Bisignani l’aiuto per risolvere al Bambin Gesù un problema di salute del suo secondogenito. «Pensavo mi volesse solo salutare e poi, all’improvviso, mi chiese: “Mi spieghi che stai facendo?”. Capii solo dopo un po’ che si riferiva alla Nigeria, a Obi e al giacimento OPL245. Provai dunque a spiegargli che in Nigeria si diceva che i “soldi” di Obi li avrebbe presi Scaroni ». I legami di Bisignani con Paolo Scaroni sono di amicizia fraterna. E per questo, Armanna capisce che le domande che si sente rivolgere hanno in realtà un altro destinatario. Il numero uno di Eni. Il che diventa chiaro quando Bisignani lo congeda con una richiesta: «Paolo deve sapere questa roba. Scrivimi quello che mi ha detto in una nota». Ed è quello che fa Armanna. «Consegnai l’appunto alla segretaria di Bisignani».
LA VENDETTA
Ad aprile 2011, Eni e Shell chiudono l’affare. Un miliardo e 300 milioni. Quaranta in più dell’ultima offerta rifiutata qualche mese prima da Etete. «Un altro controsenso, che avrebbe dato adito ad altre chiacchiere». Armanna non lo sa, ma i suoi giorni in Eni stanno per finire. A fine 2011, viene spedito prima in Qatar e poi, nel 2013, ad Abu Dhabi dove deve partecipare a una gara per l’acquisizione del giacimento Adco, 1 milione e mezzo di barili al giorno, il 50 per cento della produzione locale. Eni vuole che lo “sponsor” locale sia uno studio legale di un giordano. Armanna si mette di traverso ancora una volta. Ed è l’ultima. L’Eni concorda una “interruzione remunerata del suo rapporto di lavoro”.

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