Il reportage dall’Iraq. Domenico Quirico, La Stampa

L'articolo di Domenico Quirico
L’articolo di Domenico Quirico

ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno di giovedì 14 agosto “Traditi dai nostri vicini. Hanno sfondato le porte e preso i bimbi dai letti” di Domenico Quirico:

Un giorno, presto, molto presto, metteremo un dito sull’atlante: questo spicchio di vicino oriente, qui sono stati i cristiani. Ci sono passati come la goccia di mercurio che non bagna e invano tra qualche anno ne cercheremo le tracce. Il Nord dell’Iraq, e la Siria, sipario di enigmi, hanno ingoiato nelle loro viscere millenarie anche un lembo di questo Vangelo che è di tutti noi. Telkepe, Batnaya, Tel Esqof, Karamlish, Bashiqa, Qaraqosh, Mosul: imprimetevi nella mente questo che sembra un arido elenco di città e villaggi.

È la storia scritta da Dio che ha questo preludio di nomi crudi, agglomerati di uomini che durano il tempo necessario a pronunciare le loro sillabe, tutti coagulati in un segno sulla carta che la pronuncia dei fuggiaschi fa come precipitoso. Un milione erano i cristiani in Iraq nel 2003 prima dell’invasione americana. Ora sono ridotti a 400 mila. Questa, lo Stato islamico del Nord, è l’ultima ondata che li spazzerà via.

Solo in questa città di tribolati che ha nome Erbil sono cinquantamila; nelle chiese, in accampamenti ricavati sulle strade, negli edifici in costruzione sono gli uomini che raccontano, uomini in cui si annida l’orgoglio cristiano, senza languori e malinconie, solo cupezza e attesa. Tremila hanno trovato rifugio nella cattedrale dedicata a san Giuseppe, seicento almeno i bambini. Riuniti anche nella fuga per parrocchie, crocifissi in ogni crocefisso. Nella loro città sono rimasti trenta cristiani: i vecchi e i malati che non potevano fuggire. A custodire case che suppongono saccheggiate, chiese profanate. Ora vuoto, silenzio. Le aule, i banchi accatastati per fare spazio, sono diventati dormitori, sei famiglie sono accampate in un sottoscala, molti vivono sotto tendaggi improvvisati all’aperto, fulminati dal sole a 50 gradi, in un puzzo insopportabile di urina. Non hanno portato nulla con sé, la cosa che sognano di più è il certificato di battesimo, perché passato il confine darà loro la qualifica di rifugiati.

Le città e i villaggi della pianura del Tigri, dunque, la pianura di Ninive, terra cristiana, sarchiata dal sudore cristiano prima che gli arabi arrivassero qui: ogni volta che compaiono nel racconto degli scampati al furore del Califfato trionfante, un mondo perduto fa un passo verso di noi; fra mille arabeschi di generazioni avanza nel fogliame di incroci di fede misteriosi e prestabiliti. Le loro liti e divisioni risalgono alle bizantine dispute di Calcedonia. Miserie, ombre. Ma l’attesa e lo sconforto, il grande afoso sconforto che opprime l’animo dei cristiani che si preparano a fuggire, questa volta definitivamente, è tutta scandita in questo elenco di nomi menzionati tutti per uno, come una collana tastata da un cieco per controllare i frammenti di un gioiello.

Non illudetevi per le tardive bombe di Obama e la timida controffensiva dei guerrieri curdi che era annunciata per ieri notte. Chiediamo, per salvare i cristiani, aiuto ai curdi, ora, i curdi che furono gli zelanti massacratori degli armeni cento anni fa! Il cristianesimo nelle terre dei due fiumi, invecchiato come in un involucro trasparente, è finito. Per sempre.

Papa Francesco, venga qui, prima che accada, prenda un aereo e scenda a Erbil baciando la terra dove è l’orma degli apostoli Tommaso e Taddeo. Francesco l’avrebbe fatto. Tutta l’umana miseria dei corpi, eccola, le sarà fitta e gemente intorno, incredula e supplichevole ma capace di soffrire. Uomini che soffrono: sì, la cosa più concreta e urgente che ci sia. Stracci, carne sfortunata e occhi pieni di Storia.

Salirà le scale puzzolenti di edifici abbandonati dove i cristiani fuggiti agli odiatori senza speranza, strappati dalla nicchia quotidiana, privati dei minuscoli conforti della propria giornata, hanno il loro fardello di caldo, di sete, di fame. E rischiano di perdere ogni indulgenza, ogni interesse per gli altri. Sarebbe legge sfoderare qui denti e artigli e conquistarsi una tana. Invece no. Non urlano, non bestemmiano, in silenzio attendono, con la stanchezza che diventa aghi nelle membra. Gli inviati, le preghiere non bastano per questi martiri moderni dell’intolleranza totalitaria. Perché la loro è una religione senza miracoli, i cristiani di Iraq, uomini come gli altri con la morte sotto i piedi e la paura che sale nel petto: «Ma il loro non è un dio addormentato che somiglia troppo a un dio morto, a un dio che forse non c’è…». E le parole dell’abuma Salem Saka della chiesa caldea mi colpiscono con un suono così aspro che paiono ribattute con i chiodi.

Suvvia andiamo a vederli, percorriamo all’indietro questa lontananza che pare immensa, un viaggio breve ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, ma che dura quasi duemila anni. Arruoliamoci, testimoni volontari, in questa storia morta, in questi secoli di cenere.

Awnee è un uomo qualunque che ha vissuto giustamente a Qaraqosh e ha solo voglia di morire. Da tanti anni i suoi cassetti sono in ordine, congedati gli amici, nella dispensa di contadino mai un frutto di più per l’indomani. La morte è matura nel suo petto, aspetta il suo giorno, il bel giorno degli occhi chiusi in cui non dovrà più aggiustarsi il turbante per andare nei campi ma solo stendersi, cancellare i colori di quaggiù e galleggiare nella luce. Credeva, quando sono risuonate le raffiche di mitra e i soldati sono fuggiti per i campi, che tutto fosse finito: invece deve ancora attendere. Ha un appuntamento con uno che tarda, ma non mancherà. Ha un suo discorso breve da fare: «Ibrahim si fa chiamare il nuovo califfo, Ibrahim il nome arabo di Abramo, santo a tutte le fedi! Che oscenità, queste mummie superstiziose… per loro dio è un libro e gli uomini una cosa a cui non hanno mai pensato».

Due donne, come cespugli umani sul ciglio della strada, accanto un tappeto di gomma, unico loro avere: lanciano la voce come un tentacolo, con la disperazione di chi vive nella prigione e picchia perché gli venga aperto: «Sono stati i nostri amici e vicini arabi sunniti a tradirci. Quando arrivavano aiuti per noi, cristiani, li dividevamo, come fratelli… ma quando i “daech’’ (acronimo arabo per Isis, ndr), i jihadisti sono avanzati, sono passati dalla loro parte».
Un’altra donna, il viso largo e maschio, seduta sull’orlo di un fosso argilloso, non guarda neppure i passanti, parla con non so quale stridula timidezza: «È stato un musulmano che ci ha salvato all’ultimo momento, portandoci via in auto, ha ingannato i jihadisti al posto di blocco. Perché lo ha fatto? Perché eravamo, noi cristiani, suoi amici».

I bambini, i bambini cristiani di Erbil: hanno manine piccole che cominciavano ad acciuffare le cose; e vocette che scalfivano simili a schegge di vetro i rumori consueti della casa. Credevano che fosse un gioco quando li presero dai letti, a mezzanotte, e gli altri già sfondavano gli usci. Se non avessero sentito la mamma urlare più del giorno che li partorì. Allora si sono messi a piangere, e anche ora piangono nascondendo i volti dietro i fogli dove si spiega come fare attenzione a mine e oggetti esplosivi. Non vogliono che li guardiamo, che facciamo loro fotografie, i primi bambini del mondo che non vedo affascinati, curiosi. Hanno capito chiaramente che si trattava di questo, di morire. La morte è stata per loro come un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia.

 

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