Ilva inquina ancora. Libero: “2 ostacoli frenano partner asiatico”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Ottobre 2014 - 12:51 OLTRE 6 MESI FA
Ilva,

Ilva (foto Ansa)

ROMA – Una relazione nella quale si segnala la prosecuzione dell’attività inquinante dell’Ilva, la stessa che portò nel luglio del 2012 al sequestro degli impianti a caldo dello stabilimento di Taranto, è stata inviata dal gip del tribunale jonico Todisco, al procuratore Sebastio.

Il riferimento è alle relazioni dei custodi giudiziari secondo cui gli interventi necessari per l’interruzione dell’attività illecita, a cominciare dalla copertura dei parchi minerari, non sarebbero stati attuati.

Domenico Palmiotti sul Sole 24 ore, racconta:

Immaginiamo la reazione delle multinazionali in cordata per rilevare la più grande acciaieria d’Europa. Se dopo tre Governi, due commissari gestionali e due ambientali, sette leggi ad hoc e una sentenza della Corte Costituzionale, non c’è certezza neanche sui dati scientifici, quali garanzie può offrire questo Paese all’attività d’impresa?

Alla Procura, adesso, il gip denuncia che «l’attività criminosa» del siderurgico – il riferimento è all’inquinamento – non si è interrotta e che vi sono «evidenti lesioni a salute e ambiente». Il gip documenta tutto con la relazione dei custodi giudiziari da lei nominati per la gestione del sequestro e periodicamente inviati nello stabilimento a controllare la situazione. Solo che se ieri le accuse dei custodi (Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento, ai quali ai aggiunge per gli aspetti amministrativi Mario Tagarelli) erano rivolte alla gestione Riva, adesso attaccano quella commissariale introdotta da una legge a metà 2013 e che ha visto alla guida dell’Ilva prima Enrico Bondi e ora Piero Gnudi. Non rispetto dell’Aia ed emissioni incontrollate con particolare riferimento ai fenomeni di “slopping” (nuvole rosse con polvere di ferro che si sollevano dalle acciaierie) sono tra i punti contestati.
Se ci fosse una stretta della Procura a seguito della mossa del gip, gli impianti dell’area a caldo potrebbero essere di nuovo sequestrati senza facoltà d’uso. Ma non sono nemmeno da escludere altre ripercussioni, egualmente pesanti. Oggi l’area a caldo dell’Ilva (parco minerali, agglomerato, cokerie, altiforni, acciaierie e gestione rottami ferrosi) è sì sequestrata (i Riva non hanno mai fatto ricorso in Cassazione) ma l’azienda può comunque usarla.

La relativa facoltà è stata concessa dallo stesso gip dopo che il 9 aprile 2013 la Corte Costituzionale – bocciando tutte le eccezioni di incostituzionalità sollevate dai magistrati di Taranto – ha approvato la legge 231 del 2012 che consente all’azienda di produrre ma a patto che bonifichi gli impianti applicando le prescrizioni dell’Aia. Obblighi e tempi, secondo i custodi e il gip, sono saltati. Va detto però che l’Aia rilasciata ad ottobre 2012 dal ministero dell’Ambiente prevedeva una tempistica che poi altre due leggi, nel 2013 e nel 2014, hanno aggiornato rimandandola al piano ambientale, operativo da poco prima dell’estate con un Dpcm. Oggi questo piano dispone che l’80% delle prescrizioni sia ottemperato entro luglio 2015 e che tutto si concluda ad agosto 2016. Nei giorni scorsi, parlando in commissione Industria al Senato e poi scrivendolo nella prima relazione di gestione, il commissario Gnudi ha detto che il 75% delle prescrizioni Aia è stato già rispettato dall’Ilva e che, tra impegni e spesa effettiva, l’azienda ha impiegato 583 milioni di euro (sono contabilizzati anche quelli della gestione Bondi). I numeri di Gnudi sono stati però contestati da uno dei custodi (Barbara Valenzano) in un dibattito a Taranto, dalla Fiom Cgil e dall’ala più radicale del movimento ambientalista.

Preoccupazione per quello che potrebbe accadere viene manifestata dagli ambienti industriali anche perchè l’Ilva è in uno snodo delicatissimo tra attesa delle decisioni del gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo, sui soldi sequestrati ai Riva, rischio di amministrazione straordinaria in base alla legge Marzano, e difficoltà nella trattativa con i potenziali acquirenti (Arcelor Mittal con Marcegaglia, gli indiani di Jindal e Arvedi con i brasiliani), verso i quali l’aggrovigliarsi dei nodi giudiziari rischia di avere un effetto deterrente. «Non comprendo la lettera del gip di Taranto – dice il direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato -. Le emissioni che provocano danni alla salute sono Pm10 e benzoapirene e oggi questi inquinanti si sono drasticamente ridotti. È avvenuto per la fermata di una serie di impianti, certo, e noi adesso valuteremo il rischio sanitario residuo, ma la realtà è questa. Slopping e ritardi dell’Aia sono altro. La soluzione del caso Ilva è già difficilissima ma così la si fa diventare impossibile». «La vedo male – commenta Marco Bentivogli, segretario nazionale Fim Cisl –. Siamo su un crinale pericoloso che a breve può far saltare gli stipendi a novembre perchè l’azienda è senza soldi e tra un pò rischia di portare alla chiusura dello stabilimento. Il gip? Sa che anche il nuovo cronoprogramma Aia rischia di saltare e quindi prepara il campo. Se ne renda conto Palazzo Chigi: l’Ilva sta affondando».

Sul nodo dei fondi per le bonifiche, scrive sempre sul Sole 24 ore, Domenico Palmiotti:

Costano 1,8 miliardi i lavori ambientali nell’Ilva tra copertura dei nastri trasportatori e dei parchi minerali, rifacimento degli altiforni, a partire dal cinque, il più grande d’Europa, e interventi in tutte le aree critiche sotto sequestro. Il punto è che l’Ilva non ha queste risorse: l’azionista, Riva, sinora, le ha impegnate, e sono rimaste prive di esecuzione le due leggi (Ilva-Terra dei Fuochi di febbraio e l’ultima dell’estate scorsa) che prevedono che il commissario possa usare per l’ambientalizzazione i soldi (1,2 miliardi) sequestrati dalla Magistratura di Milano ad Emilio e Adriano Riva per presunti reati fiscali e valutari. Il commissario Piero Gnudi ha chiesto al gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo, lo “svincolo” delle somme appellandosi alla legge ma nell’udienza del 17 ottobre il magistrato si è riservato una decisione. L’avvocato di Adriano Riva ha invece sollevato l’incostituzionalità della norma. Dalla legge Ilva-Terra dei fuochi all’ultima (le norme Ilva sono nel provvedimento competitività) l’approccio è cambiato. Prima l’utilizzo dei soldi sequestrati era la terza soluzione dopo l’intervento della proprietà e, in caso di rifiuto di quest’ultima, del mercato. Adesso è l’unica soluzione ma i soldi, dice la legge, devono andare all’aumento di capitale dell’azienda e il vincolo del sequestro trasferirsi dalla liquidità alle azioni che vanno intestate al Fondo unico giustizia. Nell’udienza dell’altro venerdì a Milano, i pm hanno detto che se svincolo ci deve essere, deve servire solo alla bonifica.

Gnudi conta moltissimo sul miliardo e duecento dei Riva per rilanciare l’Aia e dare respiro allo stabilimento. E spera che si sblocchino anche la multinazionale Arcelor Mittal, in pole position con Marcegaglia nella trattativa della vendita. I potenziali acquirenti, infatti, hanno già fatto sapere che non intendono caricarsi di tutti i costi dell’ambientalizzazione. E in ogni caso hanno già posto un paletto: azienda, impianti e personale nella new company, tutto il contenzioso pregresso con le richieste di risarcimento danni che a Taranto sono un migliaio per un ammontare di 31 miliardi, nella bad company.

Ma l’Aia non è solo un problema di soldi. Ci sono anche procedure lente che allungano i tempi degli interventi. Per la copertura di due parchi (minerale e fossile) l’Ilva è in attesa di ricevere la Valutazione di impatto ambientale; per le due discariche dei rifiuti, manca il decreto del ministro dell’Ambiente che fissa le modalità di realizzazione. E ancora: ci sono voluti mesi, a fine 2013, prima che il Comune di Taranto desse l’ok alla copertura dei parchi minerali minori, altri mesi sono trascorsi prima che il piano ambientale, quello che aggiorna le scadenze dell’Aia del 2012, diventasse operativo con un Dpcm. Nell’area gestione rottami ferrosi, poi, dove l’Ilva granulava la loppa degli altiforni – ora non lo può più fare -, è previsto un sistema definitivo e nel transitorio l’installazione di cappe mobili per l’aspirazione dei fumi. Il piano ambientale le indica come soluzione ponte dicendo che vanno installate entro febbraio 2015, ma sino ad alcune settimane fa l’Arpa Puglia le ha contestate e il Comune non ha rilasciato l’autorizzazione.

Su Libero invece si fa il punto si parla della possibilità che l’Ilva finisca in mano estera:

spesso è l’unica strada per mantenere posti di lavoro, ma gli investimenti vanno remunerati: ricavi, controllo e potere lascerebbero il nostro Paese in maniera forse irreversibile. Ilva rischia di non essere un’eccezione: da mesi grandi player mondiali sono sulla scena di Taranto. Il governo considera la partita «questione nazionale» (così Renzi). I ministeri interessati alla pratica (Tesoro e Sviluppo Economico), e in particolare il viceministro della Guidi, Claudio De Vincenti, stanno valutando e gestendo sia la delicata vertenza giudiziaria, teatro dell’ennesimo scontro tra toghe e politica, sia le ipotesi di acquisizione. Secondo informazioni in possesso di «Libero», sono due gli ostacoli che frenano in particolare l’ok definitivo di un grosso gruppo asiatico: i giudici e la (nuova) legge.

A preoccupare i possibili investitori, infatti, è non solo la nota “propensione” dell’autorità giudiziaria a intervenire (se non addirittura a colmare i vuoti istituzionali anche in tema di politica industriale), ma un caso specifico: Tirreno Power. Il sito produttivo della centrale di Vado Ligure, il cui nome è già salito agli onori delle cronache per i problemi finanziari, si trova sotto sequestro da marzo per presunto disastro ambientale. L’inchiesta vede dieci indagati in un gruppo che ha tra i suoi soci Sorgenia, controllata dalla famiglia De Benedetti. Il timore dei potenziali investitori è che indagini di questo tipo possano coinvolgere anche la nuova proprietà di Ilva. Su questo però il governo non può ovviamente fare nulla, salvo tentare di salvaguardare la continuità produttiva senza compromettere il diritto alla salute.

Ciò che invece il governo può fare (e il lavorìo sui tavoli istituzionali a colpi di lobbying è molto più frenetico di quello, per dire, sull’articolo 18) riguarda il disegno di legge sui reati ambientali. Dopo il passaggio alla Camera, avvenuto a Renzi appena insediato, l’iter ha avuto un rallentamento in attesa dell’ok in Senato. Contestato da diverse associazioni ambientaliste che ci vedono una sorta di “sanatoria” anche per alcuni processi in corso, il testo licenziato da Montecitorio prevede l’introduzione del nuovo delitto di inquinamento ambientale (in effetti un unicum nel panorama europeo), punito con il carcere da due a sei anni. Le possibili modifiche nel tragitto parlamentare sono al centro di una delicatissima battaglia, probabilmente più decisiva per gli investimenti in Italia rispetto a ben più rumorose “riforme”.

Ciò che allarma i possibili compratori di Ilva è il rischio – dal loro punto di vista, ovviamente – di una scolorita distinzione tra colpa e dolo nelle imputazioni per delitti ambientali: situazione che mette chi ha la responsabilità di un’azienda di fronte a un’indeterminatezza giudicata rischiosa per chi decide se investire. A questo proposito, la preoccupazione non è solo degli investitori esteri: la recente audizione (settembre) di Confindustria alla Commissioni riunite Giustizia e Territorio del Senato ha incalzato il legislatore sullo stesso tema. L’altra partita è quella sanzionatoria: in caso di colpa accertata deve prevalere il versante penale o il ripristino – con multa – della situazione antecedente al danno? Dallo scioglimento di questi due nodi dipenderà molto probabilmente il destino futuro dell’Ilva e, con esso, di una bella fetta del disastrato panorama industriale italiano.