ROMA – Anche se per ora sono solo disponibili gli exit poll, non sembrano esservi dubbi: il Bjp e il suo leader Narendra Modi hanno prevalso, anzi trionfato, nelle elezioni parlamentari recentemente conclusesi in India, tanto che probabilmente non sarà nemmeno necessaria la ricerca di una più ampia coalizione governativa al di là della National Democratic Alliance presentatasi alle elezioni.
Si tratta di una clamorosa vittoria per l’attuale governatore dello Stato del Gujarat, e di una ancor più clamorosa sconfitta del Partito del Congresso e di quella “dinastia Gandhi” identificata con tanta parte della storia dell’India. Ha senz’altro fallito il meccanismo di trasmissione dinastica da Sonia al figlio Rahul, ma al di là delle singole persone quello che ha segnato la perdita di prestigio e consensi del partito è stata la combinazione di una caduta (in soli tre anni dal 9 al 5 per cento) dei tassi di crescita indiani con una meritata reputazione di corruzione.
Scrive Roberto Toscano sulla Stampa:
Modi promette sviluppo e onestà, facendo riferimento ai risultati conseguiti nello stato di cui è chief minister, il Gujarat, e le sue promesse hanno convinto la classe imprenditoriale, che lo aveva esplicitamente appoggiato nel corso della campagna. La Borsa ha immediatamente reagito alle anticipazioni sui risultati elettorali con un significativo balzo in avanti. Ma sarebbe profondamente sbagliato pensare che Modi sia soltanto «l’uomo del capitale». Non si spiegherebbe infatti un risultato come quello da lui conseguito con una partecipazione di oltre mezzo miliardo di elettori, il 66,4 per cento degli aventi diritto. Modi è risultato anche candidato popolare – e potremmo aggiungere populista. Lo dimostra il fatto che l’Aadmi Aam («l’uomo qualunque») il partito del «Grillo indiano», Kerjiwal, che sembrava la grande novità nel panorama politico, non sembra avere riportato se non consensi marginali, pur avendo condotto la sua campagna sul tema, la corruzione, che ha negli ultimi tempi suscitato una fortissima ondata popolare contro la classe politica tradizionale. Questo rigetto, questa indignazione, si sono rivolti quasi esclusivamente contro il Partito del Congresso, mentre Modi è riuscito a combinare politica e antipolitica, capacità di gestione e protesta populista, raccogliendo consensi in un elettorato che va dal business alle classi medie, dai giovani (per cui oggi la priorità sono le condizioni economiche, e non le precedenti divisioni ideologiche) alle caste più umili, nei cui confronti ha sfoggiato il suo impeccabile curriculum di uomo semplice, del chai-walla, l’inserviente che serviva il tè davanti alla stazione ferroviaria di Ahmedabad, schierato contro lo shah-zade, il principino ereditario, Rahul.
E allora? Non potremmo anche noi dargli credito? E, a parte il comprensibile disappunto della parte politica sconfitta, perché prendere sul serio l’ostilità e i timori degli intellettuali, dei progressisti, dei laici?
Ha vinto un partito di centrodestra che già in passato aveva governato l’India, un partito con dirigenti del tutto rispettabili, fra l’altro con esponenti qualificati non solo in campo economico ma anche sul terreno delle relazioni internazionali. Siamo di fronte ad un’alternanza che si potrebbe considerare fisiologica, e anzi positiva visto l’evidente deteriorarsi della capacità politica e di gestione dell’economia da parte di un Partito del Congresso arenatosi nel tentativo di protrarre una dinastia ormai politicamente esaurita e nell’usura di un potere troppo spesso senza orizzonti ideali e nemmeno programmatici.Ma non siamo di fronte a una semplice alternanza. Piuttosto che il Bjp, ha vinto Modi e con lui è tornato in primo piano il movimento cui ha appartenuto fin da ragazzo, l’Rss – un movimento fondamentalista indù, fondato poco dopo il 1920 e che nel decennio successivo si strutturò sulla base di un’ideologia esplicitamente ispirata al nazismo. Il suo principale ideologo, Golwalkar, scriveva alla fine degli Anni 30: «Le razze straniere (sic) nell’Hindustan devono o adottare lingua e cultura indù oppure potranno restare nel Paese in condizioni di totale subordinazione alla nazione indù senza pretendere né meritare privilegi, e nemmeno i diritti di cittadinanza». Se i riferimenti al nazismo sono ovviamente scomparsi – e sebbene il Bjp, nonostante la sua radice ideologica sia nel Rss, voglia oggi essere un normale partito conservatore – l’ideologia dell’«India agli indù» rimane fortissima nelle correnti radicali del fondamentalismo. In un Paese con il 13 per cento di musulmani, si tratta evidentemente di una pericolosissima provocazione capace di innescare una spirale di violenze fra la comunità indù e quella musulmana.
Modi ha condotto la sua campagna evitando accuratamente di toccare questo tipo di tematiche, preferendo ostentare un atteggiamento non settario, ma la sua storia politica comprende episodi inequivocabili: dalla partecipazione alla «marcia su Ayodhya», il luogo dove nel 1992 duecentomila fondamentalisti indù, mobilitati dall’Rss, distrussero con sbarre e martelli un’antica moschea presuntamente costruita nel luogo ove si erigeva un tempio al dio Rama, fino all’episodio più grave, il massacro di circa duemila musulmani avvenuto in Gujarat nel 2002, in cui Modi figura come promotore dei massacri o quanto meno colpevole di non aver fatto niente per impedirli. Modi non ha mai espresso un vero rammarico per gli atroci avvenimenti del 2002 limitandosi alla sinistra affermazione: «Certo che dispiace, come dispiace quando vediamo un cagnolino messo sotto da una macchina».
Evidentemente l’handicap politico e morale di questa macchia non ha pesato se non in ambienti molto ristretti. Fra l’altro non ha nemmeno garantito un voto compatto anti-Modi da parte dell’elettorato musulmano, che a quanto sembra ha votato per il Bjp in modo, come sempre, molto minoritario, ma con qualche punto in più rispetto alle precedenti elezioni parlamentari.La vittoria elettorale in un elettorato di mezzo miliardo di votanti costituisce senza dubbio una legittimazione democratica, ma la vera domanda è sempre, in India e altrove, se questa legittimazione elettorale si tradurrà poi in un rispetto delle minoranze e nell’applicazione delle regole dello stato di diritto. In un momento in cui tra i protagonisti della scena internazionale vediamo personaggi come Putin e Erdogan (indiscutibilmente popolari, sicuramente vincitori delle elezioni) la vittoria di Narendra Modi potrebbe costituire un ennesimo caso di «democrazia illiberale».
In politica estera Modi ha condotto la campagna elettorale evitando toni estremisti, ma il suo nazionalismo spinto non può certo essere messo in dubbio, come è stato anche confermato dalla dura presa di posizione sulla questione dei nostri marò («perché non sono in prigione?»). Se vogliamo essere ottimisti possiamo pensare che, vinte le elezioni, Modi non avrà più la necessità politica di usare il caso contro Sonia Gandhi, e che potrebbero finire per prevalere le considerazioni pragmatiche circa la necessità di non pregiudicare i rapporti soprattutto economici con un importante partner occidentale come l’Italia. Forse, ma certo non subito, e non in modo palese.
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