“Isis, torture e crocifissioni agli ostaggi. Anche una donna Usa rapita”. Bonini su Repubblica

di Redazione Blitz
Pubblicato il 30 Settembre 2014 - 06:21 OLTRE 6 MESI FA
"Isis, torture e crocifissioni agli ostaggi. Anche una donna Usa rapita". Bonini su Repubblica

“Isis, torture e crocifissioni agli ostaggi. Anche una donna Usa rapita”. Bonini su Repubblica (foto LaPresse)

ROMA – Sanno i loro nomi. Ma altra cosa è trovarli. Stati Uniti e non sono danno la caccia ai torturatori e al boia dell’Isis, quel “Johnny” di cui l’intelligence Usa ha annunciato di aver scoperto l’identità. Di loro si sa che uccidono e prima ancora torturano in modo feroce. Quello che non si sapeva e che si è scoperto di recente, racconta su Repubblica Carlo Bonini in un lungo pezzo dedicato al modo in cui l’Isis tortura e annienta i suoi prigionieri, che in quelle prigioni sono passati anche un russo e una donna. Di loro nulla si sa: scomparsi nel nulla, sia il russo sia la donna, con accento americano.

Bonini descrive gli aguzzini dell’Isis, quelli che catturano gli occidentali, sempre li torturano, spesso li decapitano e solo qualche volta li lasciano andare:

Di Jhonny e della sua banda di assassini, Scotland Yard e l’MI5 conoscono ormai con ragionevole certezza l’identità da diverse settimane. A cominciare dall’ex rapper ventitreenne Abdel Mayed Abdel Bary, partito dal Regno Unito per la Siria nel luglio del 2013 e cresciuto a West London. «Lo stesso quartiere — aggiunge una fonte della nostra Intelligence — da cui si sono mossi almeno una parte degli uomini della sua banda».

«Una decina di elementi in tutto — prosegue la fonte — che, nell’arco di nemmeno due anni, hanno avuto nelle mani almeno 40 ostaggi occidentali e a cui, nel tempo, si sono andati aggregando foreign fighters di cittadinanza francese e anche spagnola». Non è un caso, del resto, che del gruppo facesse parte il francese Mhedi Nemmouche (autore della strage al museo ebraico di Bruxelles e, una volta arrestato, riconosciuto come suo carceriere da Nicolas Henin). Né è un caso che nei ricordi di tutti gli ostaggi, quelle tre lingue europee vengano descritte come parlate «con buona proprietà».

Sia durante le paranoiche sessioni di interrogatori individuali alla ricerca di indizi che consentano di battezzare o meno un prigioniero come spia. Sia nell’analisi altrettanto ossessiva dei file delle memorie dei computer portatili sequestrati alle vittime catturate. Sia nella predisposizione dei testi da inviare come prova dell’esistenza in vita durante le trattative per il rilascio dei prigionieri.

Ma soprattutto ci sono le torture. Atroci. Supplizi pensati e realizzati per fare da contrappasso a Guantanamo ma allo stesso tempo andare oltre. Molto oltre. Ancora Bonini:

Sono poliglotti i macellai di John. Come può e sa esserlo solo chi in Occidente è cresciuto. E sadici. Come sa e può esserlo con un occidentale solo chi è cresciuto in Occidente e dunque ne conosce le paure più recondite. Nei protocolli dei carcerieri — così come ricostruiti dagli ex ostaggi nelle loro testimonianze rese ai Servizi alleati — accade così che le torture abbiano cadenza quotidiana e si consumino regolarmente per l’intera notte.

In stanze attigue a quelle dove gli altri prigionieri dovrebbero prendere sonno e dove, al contrario, vengono lasciati in compagnia delle urla strazianti di chi, tra loro, è stato sorteggiato per i tormenti. Un’Arancia Meccanica più che una tortura rituale. Pensata per lasciare tracce indelebili nella psiche del prigioniero e insieme appagare la fantasia disturbata dei suoi carnefici. In una ferocia che se da un lato deve evocare nella vittima l’idea del contrappasso per le colpe di Guantanamo (gli ostaggi inglesi e americani sono stati regolarmente sottoposti al waterboarding, l’annegamento simulato), dall’altro è semplice furia sadica. Crocifissioni, pestaggi sistematici agli arti, elettrificazioni, finte esecuzioni. Inflitte talvolta dietro il travisamento di una kefiah. Spesso a volto scoperto.

A parlare del russo e della donna americana è stato invece Federico Motka, che dell’Isis è stato prigioniero ed è stato uno dei pochi a tornare a casa. Con lui c’era David Haines, che a casa non è più tornato. Ancora Bonini:

Un inferno che ha appunto attraversato anche il nostro Federico Motka, insieme all’amico e collega di lavoro David Haines, l’ostaggio inglese che con lui viaggiava al momento della cattura e che era responsabile della sua sicurezza. I due hanno trascorso insieme l’intera prigionia e insieme sono stati trasferiti dall’una all’altra delle 7 prigioni del-l’Is che hanno conosciuto. Fino al rilascio di Federico (il 26 maggio scorso), quattro mesi prima dell’esecuzione di Haines. Ebbene, è davanti ai loro occhi che è apparso per un breve periodo un compagno di prigionia russo, prima che i suoi carnefici lo facessero scomparire. Ed è ancora davanti ai loro occhi che sono sfilate a un certo punto un gruppo di “prigioniere”. Una di loro, dall’accento americano.
Erano divise dagli altri ostaggi occidentali — ha raccontato Motka a chi lo ha interrogato dopo la sua liberazione — e trattate come esseri impuri. Il loro numero e la loro sorte resta ancora un punto di domanda. Ma la loro presenza nelle prigioni dell’Is, insieme a quella di ostaggi inglesi e americani, è stata evidentemente la ragione che, ai primi del luglio scorso, aveva convinto la Casa Bianca a tentare un blitz della Delta Force in quella che, sulla base delle indicazioni degli ostaggi francesi, spagnoli e italiano rilasciati tra aprile e maggio, era ritenuta l’ultima delle prigioni in cui sorprendere John e la sua band