GERUSALEMME – Non solo una mattanza in cui si sono opposti ebrei e palestinesi, ma una strage che ha visto i musulmani contro gli ebrei. E’ la strage nella sinagoga di Gerusalemme avvenuta all’alba di martedì 18 novembre e costata la vita a quattro rabbini, oltre che ai due attentatori.
Su Repubblica Bernardo Valli analizza quanto avvenuto.
“I momenti peggiori del conflitto tra israeliani e palestinesi sono quelli in cui l’impronta nazionale, dunque politica, diventa religiosa. È quel che è accaduto ieri a Gerusalemme, dove quattro rabbini sono stati uccisi da due giovani palestinesi.
E questo è avvenuto, per la prima volta, in una sinagoga di Gerusalemme. Gli autori e le vittime (avvolte nel tallit, lo scialle frangiato, e con i filatteri, gli astucci quadrati contenenti quattro passaggi biblici, appesi alle braccia e alla testa, e cioè con i paramenti della preghiera mattutina) per il luogo e il movente del massacro, erano dunque al momento musulmani ed ebrei. Molto più che palestinesi e israeliani. È come se in quei minuti il sanguinoso dramma di una terra contesa nella valle del Giordano fosse stato investito dalla tempesta di fanatismo abbattutasi sul Medio Oriente.
Là, tra il Tigri e l’Eufrate, in Siria e in Iraq, cadono le teste mozzate dai seguaci di un sanguinario e abusivo califfo. E quasi in simultanea nell’angolo di mondo considerato santo dai tre monoteismi, dove non riescono a convivere Israele e Palestina, diventa micidiale un odio vissuto come una fede. La sacralità, la dimensione spirituale, si materializza nei luoghi contesi, confondendo politica e religione. È una tragedia che ci ferisce. Che ci offende.
Ci sono state moschee demolite dai coloni israeliani e dai soldati e dagli aerei di Tsahal; c’è stato il massacro dei visitatori palestinesi nella Tomba di Abramo, a Hebron; ci sono stati gesti di sfida, di provocazione, sulla Spianata delle moschee, sacra ai musulmani, da parte di soldatacci come il generale Sharon. In quasi mezzo secolo tante offese e violenze sono state inflitte. Le stesse restrizioni imposte per accedere alle preghiere del venerdì santo alla moschea di Al Aqsa e a quella di Omar sono state frustranti, offensive. Ma non c’è mai stata una reazione tanto mirata.
Le ventate religiose, mosse da un sinistro misticismo, non sono certo nuove nel conflitto israelo-palestinese. Fino ai primi anni Settanta il confronto, da entrambe le parti, era vissuto attraverso un prisma politicamente laico e i riferimenti alla religione erano poco sollecitati. La guerra del ’67 (dei Sei giorni) ha accresciuto il peso del sionismo religioso fino allora pragmatico e all’improvviso, di fronte alle terre conquistate, lanciato in un fondamentalismo messianico che imponeva il dovere irrevocabile di sviluppare la presenza ebraica su tutta la Terra di Israele. La destra politica, pur non condividendo questa ideologia teologica, le ha affiancato un nazionalismo integrale, che ha portato alla moltiplicazione delle colonie nei territori occupati. Un’usurpazione continua. Molti dirigenti palestinesi hanno detto nelle ultime ore che la strage dei rabbini era la conseguenza di decenni di occupazione e, incoscienti, hanno esultato a Gaza e a Ramallah. Dalle viscere della Terra Santa emerge l’odio religioso, promosso da un dio immaginario, creato ad hoc.
Un dinamismo religioso abbastanza simile si è sviluppato in campo palestinese. Fondando Hamas nel 1987, ai tempi della prima Intifada, si è impiantato solidamente a Gaza un islamismo fino allora contenuto dai movimenti laici come Al Fatah, o addirittura marxisti come il Fronte popolare di George Habbache. Per eliminare questi ultimi gli israeliani hanno appoggiato allora Hamas. Il quale usufruiva dell’aiuto dei Fratelli musulmani, di cui era un affiliato. La scelta israeliana non fu indovinata, anche se portò alla scissione della Palestina. Da un lato Ramallah, capitale del laico Olp, dall’altro Gaza, dov’è annidata Hamas, incalzata dalla sua ala militare intransigente e dagli estremisti della concorrente Jihad islamica. Così come Netanyahu, in Israele, è incalzato dal più intransigente Bennet, alle prossime, imminenti elezioni.
Ieri a Gerusalemme è esploso, dopo tanti tragici intermezzi, il fenomeno religioso. A memoria d’uomo non si ricorda di un altro massacro in una sinagoga. Non si ricorda di altri rabbini trucidati, mentre pregavano. Ma non è soltanto il luogo a ricordare il carattere religioso della strage. C’è anche il movente. I due cugini assassini, uccisi dai poliziotti dopo che loro avevano ucciso i rabbini in preghiera, consideravano l’azione a Har Nof , uno dei più rispettati quartieri ortodossi di Gerusalemme, come una risposta alle dichiarazioni di Benjamin Netanyahu circa le nuove regole da adottare sulla Spianata delle Moschee. Sebbene il primo ministro avesse in seguito promesso che lo statuto del luogo santo musulmano non avrebbe subito modifiche, e cioè che gli ebrei non avrebbero potuto recitarvi le loro preghiere come era apparso in un primo momento, i due autori della strage avevano considerato una seria minaccia i propositi di Netanyahu. Così sostengono i loro amici cercando di spiegare il massacro di Har Nof.
È cominciata la terza Intifada, un’altra insurrezione? Questa volta con uno spiccato carattere religioso, e soprattutto affidata agli individui, non inquadrati dai movimenti estremisti ma spinti dalla collera collettiva, abilmente sobillata? Har Nof è forse l’inizio. Gli automobilisti palestinesi che investono i passanti israeliani; il palestinese anonimo che accoltella un soldato israeliano a Tel Aviv. Al tempo stesso i coloni nei territori occupati che fanno esplodere una moschea. Questi episodi si moltiplicano e si concludono con morti e feriti. Si annuncia una protesta diffusa e imprevedibile e da parte degli israeliani una reazione difficile da disciplinare. Il governo pensa di concedere numerosi porti d’arma per consentire ai cittadini di difendersi. Si annuncia qualcosa di simile a un corpo a corpo tra due popolazioni”.