Jobs Act, imbroglio gigante. Renato Brunetta sul Giornale

di Redazione Blitz
Pubblicato il 24 Novembre 2014 - 08:13 OLTRE 6 MESI FA
Jobs Act, imbroglio gigante. Renato Brunetta sul Giornale

Jobs Act, imbroglio gigante. Renato Brunetta sul Giornale

ROMA – Brunetta fa polemica sull’art. 18 un po’ perché questa di distanziarsi da Renzi è la nuova strategia elettorale di Berlusconi e un po’ per rompere le uova anche in casa sua, tipo Sacconi, che hanno dialogato con Renzi sul tema.

La verità è che Renzi ha dovuto pattinare con la sua sinistra e il risultato è, come dice lo stesso Brunetta, “la regolazione di questo compromesso è stata delegata a decreti legislativi che al momento nessuno conosce”.

L’articolo di Renato Brunetta:

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con tutte le sue rigidità, non è stato superato, e la regolazione di questo compromesso è stata delegata a decreti legislativi che al momento nessuno conosce. Ne verrà fuori un pasticcio contro i lavoratori, le imprese, i giovani, il mercato del lavoro e anche contro il buonsenso. Sarebbe bastato dire: l’articolo 18 è abolito, non c’è più il reintegro ma solo l’indennizzo. È un imbroglio, come lo è il contratto a tutele crescenti valido solo per i neoassunti. E come è un imbroglio la promessa di ammortizzatori sociali per tutti con soldi che non ci sono. Resta solo la logora annuncite di Renzi.

Cronologia dell’imbroglio

Sul Jobs Act, l’8 dicembre 2013 Matteo Renzi ha vinto le primarie del Pd, da cui è partita la scalata a Palazzo Chigi, in meno di un anno. Ed è, poi, dell’8 gennaio 2014 la e-news con cui l’allora solo segretario Pd illustra le sue idee sulla riforma del mercato del lavoro. Diventato presidente del Consiglio nelle slide «La svolta buona» presentate il 12 marzo, pone come termine per la riforma del mercato del lavoro lo stesso mese di marzo. Si è proceduto subito con il decreto Poletti, del 20 marzo, e subito sono sorte le prime incomprensioni tra le diverse correnti del Pd, tanto che per l’approvazione definitiva del decreto in Parlamento, il governo ha dovuto fare ricorso ben 4 volte alla fiducia. Lo stesso 12 marzo, il Consiglio dei ministri ha approvato la seconda parte della riforma voluta da Renzi: la legge delega, il Jobs Act. Viene presentato al Senato il 3 aprile e lì rimane insabbiato. Addirittura subisce il sorpasso da parte del disegno di legge Boschi sulle riforme istituzionali. Ad agosto parte l’offensiva del Nuovo centrodestra con il ministro Alfano: «Bisogna superare l’articolo 18, basta con i totem di una certa sinistra e dell’ideologia. Si tratta di una chiave per nuove assunzioni e noi proponiamo di superarlo dentro lo Sblocca Italia» (…)

L’imbroglio continua

Ad agosto interviene con un plateale stop il premier: «L’articolo 18 è solo un simbolo, un totem ideologico, proprio per questo trovo inutile stare a discutere se abolirlo o meno». Ma il 28 settembre cambia idea. Ospite della trasmissione Che tempo che fa sostiene che il reintegro in caso di licenziamento illegittimo è un ferro vecchio: «Non tratto con la minoranza del partito ma con i lavoratori. L’articolo 18, è una norma che risale a 44 anni fa e tutela solo una parte delle persone, altre sono abbandonate». Il giorno dopo la direzione del Pd approva un odg: «Una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo il reintegro. Che viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie». Si torna sostanzialmente alla legge Fornero. Ma in Senato, dove l’8 ottobre si vota la fiducia, il maxi emendamento del governo non fa cenno all’articolo 18: si parla vagamente di «contratto a tutele crescenti». Il provvedimento viene approvato. Maurizio Sacconi afferma di avere vinto, e il testo sembra dargli ragione, anche se per la sua genericità rischia la sanzione di incostituzionalità. La minoranza Pd strilla per il tradimento del voto in direzione, ma non ha il coraggio di votare contro e si limita a minacciare revisioni alla Camera. E alla Camera la resa dei conti arriva il 13 novembre, con l’apertura del governo alla minoranza Pd. Nessun voto di fiducia sul testo del Senato, ma l’approvazione in tempi brevi del testo che uscirà dalla commissione Lavoro e che recepirà le proposte del Pd. Ovviamente Ncd non ci sta. Ma poi abbocca (che cosa altro potrebbe fare dopo aver ottenuto, con le modifiche alla legge elettorale, la promessa della permanenza in vita?). Il testo modificato con le richieste della minoranza Pd viene approvato in commissione e venerdì sono cominciate le votazioni in Aula. Esulta Sacconi ed esulta Damiano. C’è qualcosa che non torna.

La posizione di Forza Italia

Il Jobs Act è l’ennesimo imbroglio di Renzi. L’articolo 18 esce dalla porta per tornare dalla finestra. Una norma che creerà nuove rigidità, non aiuterà le imprese e non favorirà nuove assunzioni. Inoltre il testo consegna ai giudici una grande discrezionalità nel valutare la legittimità o meno del licenziamento disciplinare. E il problema del rapporto con l’articolo 76 della Costituzione resta aperto, dal momento che non è dato sapere quali saranno le «specifiche fattispecie» in cui opererà la sanzione del reintegro. La soluzione proposta in un emendamento di Forza Italia sarebbe stata più chiara: nel caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo, dare al datore di lavoro, sanzionato con la reintegra, la facoltà di optare per un’indennità predeterminata. (…)

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