ROMA – “Linea di confine. La debole politica estera dell’Italia”, è il titolo dell’articolo sulle pagine di Repubblica a firma di Mario Pirani. “Solo in qualche rivista, letta al più da interessati ambasciatori in pensione – scrive Pirani -, possono riesumarsi, con qualche curiosità, corposi articoli, sapide rubriche sulle attività altrimenti ignote delle nostre feluche, ricordi di vita diplomatica coltivati da studenti speranzosi in un futuro egualmente brillante a quello dei loro predecessori. Eppure ogni illusione dovrebbe essere svanita da tempo e neppure un attento entomologo riuscirebbe a reperire al giorno d’oggi tracce valide di una politica estera italiana”.
Ne parliamo, dunque, a puro scopo didattico e formativo così che i giovani iscritti a Scienze politiche o a discipline similari possano esser convinti a dare un senso ai loro curricula scolastici. Peraltro, in Italia tutto è possibile se solo nell’ultimo giorno di settembre stava per ricevere con tutti gli onori il portafoglio della Farnesina una giovanissima laureata, Lia Quartapelle, da Varese, certamente di valore, ma i cui titoli non oltrepassavano una fresca laurea triennale trasformata in extremis in perfezionamento quinquennale. Una brillante carriera bloccata dal pignolo presidente della Repubblica che trovò eccessiva una partenza tanto accelerata, non bastando a nobilitarla l’inedito bacio accademico di Matteo Renzi, convinto all’ultimo istante a ripiegare su Paolo Gentiloni, “un usato sicuro”, privo di sorprese.
In ogni modo ci sarebbe tempo non solo per recuperare quello perduto quanto per non dilapidare il frutto di antiche presenze. In primo luogo non lasciando del tutto cadere il classico tridente della politica estera italiana (Europa, rapporto transatlantico, Nato) che ormai per ignavia ci vede in ultima istanza più deboli con l’Unione europea e meno credibili con gli Usa. Nel frattempo abbiamo disperso l’iniziativa quanto meno economica che Sarkozy aveva cominciato ad elaborare di una Unione per il Mediterrraneo, presto fallita in seguito alle “primavere arabe”. Reso vano ben presto anche il tentativo di mantenere con la Libia una nostra punta di penetrazione nel Maghreb, senza cercare di unificare su questo punto gli alleati possibili come la Germania che non aveva partecipato al conflitto e non aveva interesse a destabilizzare Gheddafi. Del resto, neppure gli Usa ne erano convinti fin dall’inizio. Invece ci siamo aggregati a una scomposta coalizione di “volenterosi” che ci ha trattato come gli ultimi della classe, senza nemmeno che ci sfiorasse il dubbio che l’operazione franco-britannica era diretta soprattutto contro ogni nostra residua influenza.
Se esploriamo anche altri quadri dei nostri possibili interessi ci rendiamo presto conto di quanto siano vitali i legami con la Russia, per cui non ha alcun senso per noi mantenere le sanzioni contro Mosca, peraltro pericolose e destabilizzanti perché accentuerebbero il vuoto strategico nella grande area a Nord del Caucaso. Da riempire con cosa? Con la Cina? La quale, peraltro, non vuol saperne. Del resto al di là delle recriminazioni economiche, non siamo ancora riusciti a coagulare un fronte che non sia necessariamente pro Putin, ma che riguardi un progetto economico e strategico complessivo per trattare con la nuova Russia che si sta definendo in questi mesi (…)