Letta-Renzi; Impeachment; Svizzera: rassegna stampa del 12 febbraio

di Redazione Blitz
Pubblicato il 12 Febbraio 2014 - 08:18 OLTRE 6 MESI FA

Letta-Renzi; Impeachment; Svizzera: rassegna stampa del 12 febbraioROMA – Renzi più vicino a Palazzo Chigi “Cambiare la batteria del governo”. Letta resiste e tenta l’ultimo rilancio. L’articolo di Repubblica a firma di Francesco Bei e Goffredo De Marchis:

E’ stato il giorno della verità ». Così parla Renzi prima di avviarsi allo stadio e staccare con Fiorentina-Udinese. In tasca ha il consenso di quasi tutta la maggioranza, a partire dal Pd e da Scelta Civica, per traslocare a palazzo Chigi. Ancora non si è pronunciato Alfano, anche se la prudenza del leader Ncd appare motivata più da riconoscenza personale verso il premier che da reale convinzione politica.

Giorgio Napolitano resta neutrale, non dice no alla staffetta, attende che sia il Pd a risolvere il dissidio scoppiato tra i due “campioni”. Nel lungo vertice sul Colle di lunedì sera con il segretario si è limitato a un suggerimento da politico navigato: «Agisci da leader, prendi le tue decisioni». Quel che importa al capo dello Stato è che la legislatura non si interrompa e, con essa, il cammino delle riforme.

Stamattina ci sarà il faccia a faccia finale tra Renzi e Letta, quello in cui verranno pronunciate le parole definitive. Il segretario del Pd è già oltre, immagina il suo «programma shock, un programma per cambiare l’Italia», fin dai primicento giorni. Ne parla con i suoi, come se fosse tutto fatto. «Avrei voluto più tempo, ma il tempo non c’è». Dunque si butta, senza elezioni, per durare fino alla fine della legislatura. Anno 2018.

Il problema è che il premier, al momento, non ha alcuna intenzione di cedere il passo. Eppure per l’intera giornata si rincorrono le voci di sue imminenti dimissioni. Forse stasera stessa, quando il presidente della Repubblica tornerà dal Portogallo. Possibile? Letta fa sapere invece che oggi getterà sul tavolo l’ultima carta: in conferenza stampa presenterà il suo «patto di coalizione », cinque punti per ripartire. Vuole dimostrare che il capolinea è ancora lontano. Il suo piano si regge su due pilastri, il lavoro e la lotta alla corruzione. «Questo programma di governo — afferma il premier a Milano dopo aver incontrato Napolitano al Quirinale — è convincente e convincerà tutti i partiti che sostengono il nostro governo, compreso il Pd». Se in pubblico Letta ostenta distacco,nelle riunioni con i suoi traspare l’amarezza e l’ira per «l’assedio» a cui si sente sottoposto da giorni a opera delle truppe fiorentine. «Matteo si sta comportando come D’Alema con Prodi», sibila con gli amici. Sta consumando un tradimento in piena regola, accoltella alle spalle e non rispetta i patti. Di fatto però il premier appare isolato, nella coalizione e nel partito. La minoranza Pd non nasconde più la sua preferenza. Spinge Renzi verso palazzo Chigi e accusa Letta di scarso coraggio. Il bersaniano Nico Stumpo individua l’inizio della caduta: «È finito tutto quando Enrico ha accettato che si svolgesse il congresso. Si doveva opporre, era chiaro che due gallinel pollaio non possono stare». Come dire: il premier non può lamentarsi, ha perso l’occasione. Gli alleati minori hanno già mollato gli ormeggi. Anzitutto i montiani. «Ora c’è la prospettiva di dar vita a una legislatura veramente costituente — spiega Stefania Giannini, leader di Sc — che arrivi alla sua scadenza naturale. Dall’altra parte cosa resta? Il rischio di entrare in una spirale che ci porterà in pochi mesi al voto anticipato ». L’equazione è semplice: con Renzi si va fino al 2018, con Letta tutto può precipitare da un giorno all’altro. Un ragionamento che convince anche la sinistra Pd e tutti i parlamentari che non vogliono andare a casa.

Nel palazzo è già totoministri all’Economia Boeri o Guerra e per la Cultura spunta Baricco. L’articolo di Repubblica a firma di Giovanna Casadio:

I più scaramantici ricordano che “non si dice gatto finché non l’hai nel sacco”. Ma è già partito il risiko del nuovo governo. Ci sono per la verità un paio di questioni politiche da risolvere in via preliminare. A partire da quale maggioranza pensa il segretario del Pd; se, per esempio, vuole allargare a chi in Sel ci sta a salire sul carro di un governo di riforme hard. Perché dalla composizione della maggioranza dipenderà anche quella dell’esecutivo.

Se governo forte deve essere, i ministeri-chiave sono l’Economia e le Riforme. E i nomi che circolano sono quelli di Tito Boeri o di Andrea Guerra, l’amministratore delegato di Luxottica, per il dicastero che nel governo Letta ha guidato Fabrizio Saccomanni. Boeri per la verità è indicato come papabile anche per il Lavoro, dove però il Pd preferirebbe Guglielmo Epifani. L’ex segretario ha traghettato i Democratici dalle dimissioni di Bersani alle primarie che hanno eletto Renzi, facendosi poi da parte. Il sindaco fiorentino stesso ha detto che c’è un debito di riconoscenza nei suoi confronti. Il puzzle sarà difficile da comporre se il futuro premier vorrà “rottamare” molto dell’esecutivo Letta.

In primo luogo occorrerà vedere quale sarà il patto tra Matteo Renzi e Enrico Letta. Nella Prima Repubblica, in casa Dc, a un premier uscente si offriva la Farnesina. Massimo D’Alema, che scalzò Prodi da Palazzo Chigi nel 1998, tornò poi come ministro degli Esteri del governo Prodi nel 2006. Ma al momento Enrico si prepara alla guerra e non sembra per nulla propenso ad accettare. Potrebbe allora restare Emma Bonino alla Farnesina, perché il presidente Napolitano preme affinché si garantisca continuità nei rapporti internazionali. L’altro “nodo” della partita è il rapporto con Angelino Alfano, attuale vice premier e ministro dell’Interno, leader del Nuovo centrodestra, la costola ex berlusconiana che ha reso possibile una maggioranza di governo. Alfano potrebbe limitarsi a fare il vice premier. Il Viminale sarebbe così affidato a Graziano Delrio, consigliere di Renzi e ora ministro degli Affari Regionali, oppure a Dario Franceschini. Per l’attuale ministro dei Rapporti con il Parlamento non è l’unica chance: l’altra destinazione è la Cultura. Mentre ai Rapporti con il Parlamento è indicato Roberto Giachetti, vice presidentedella Camera.

La polemica Impeachment, archiviata la denuncia M5S. L’articolo di Repubblica a firma di Alberto D’Argenio:

Il Parlamento boccia la richiesta di impeachment del presidente Napolitano presentata dal Movimento 5 Stelle. «È manifestamente infondata», la motivazione approvata a larga maggioranza dal Comitato parlamentare per la messa in stato d’accusa. Per l’archiviazione hanno votato Partito democratico, Nuovo Centrodestra, Scelta Civica, Popolari per l’Italia, socialisti e Sel. Contro, ovviamente, i grillini. Si è astenuta Forza Italia e non hanno votate nemmeno i presidenti del Comitato Ignazio La Russa e Dario Stefano. Con un totale di 28 voti per l’archiviazione contro 8. Ma i 5Stelle urlano al complotto. «Non finisce qui», promettono prima di attaccare violentemente Napolitano.

La Russa spiega che l’archiviazione diventerà definitiva tra 10 giorni a meno che il 25% del Parlamento non la impugni. «È inammissibile che non si faccia luce, insistiamo per l’apertura di un’indagine», afferma il senatore grillino Giarrusso. I parlamentari del M5S denunciano oscuri «patti e ricatti» che hanno portato all’archiviazione e promettono che raccoglieranno le firme per portare la loro richiesta in aula. Dal suo blog Grillo si scaglia contro Napolitano scrivendo che «non può restare al Colle, deve avere la dignità di dimettersi, è a fine corsa e fuori ruolo. L’Italia non può essere condannata a Napolitano a vita e alle sue originali interpretazioni monarchiche del ruolo di presidente. Napolitano è oggi il problema principale di questo Paese, prima viene rimosso prima l’Italia potrà ripartire». Il comico genovese ne ha anche per l’astensione di Forza Italia: «Hanno il coraggio dei conigli o l’opportunismo dei sodali».

I forzisti avevano evitato l’asse con l’M5S definendo infondate le sei accuse rivolte al Capo dello Stato e annunciando l’astensione già in mattinata. Poi hanno motivato l’uscita dall’aula accusando gli altri partiti di non avere concesso un supplemento di indagini per integrare la richiesta con i contenuti del libro di Friedman sull’estate 2011 che portò alle dimissioni di Berlusconi e all’arrivo di Monti. Un punto sul quale Brunetta chiede «la verità». Giovanni Toti, consigliere politico di Berlusconi, vuole invece usare «la sede parlamentare del Comitato per l’impeachment per fare chiarezza, non sarebbe male se Napolitano desse qualche chiarimento in più rispetto a quelli largamente insufficienti portati fino a qui». Insomma, chiede al presidente di andare alle Camere a spiegare il suo operato nell’estate di tre anni fa. E l’esercito di Silvio annuncia per oggi un presidio davanti al Quirinale.

La vera priorità dei conti italiani? Resta ridurre il debito pubblico. L’articolo del Corriere della Sera a firma di Alan Friedman:

Se vogliamo ragionare su come rimettere il Paese sul binario della crescita e dell’occupazione dobbiamo cominciare con l’abbattimento del debito, non per rimandare le iniziative per il lavoro o altre riforme ma per agire contemporaneamente su entrambi i piani.

Perché insisto così tanto sulla riduzione del debito? La risposta è semplice: una volta che si inizia a ridurre il debito, anche di poco, si manda un messaggio potente ai mercati finanziari, agli speculatori, ai nostri critici e pure ad Angela Merkel, un messaggio che si potrebbe riassumere così: «Zitti tutti. Non ci provate con noi perché stiamo già mostrando quanto siamo virtuosi, seri e responsabili. Ora facciamo una rinegoziazione dei vincoli europei e una modernizzazione delle regole di Maastricht in modo razionale e da una posizione di forza e credibilità come Paese. E porremo fine al culto dell’austerity».

La riduzione seria del debito ci proteggerà dagli speculatori nei mercati finanziari e ci metterà in una botte di ferro, dandoci una credibilità forte e un vero potere contrattuale in Europa, quello che a questo Paese manca da decenni.

Come fare? Vediamo.

Sfruttare il patrimonio pubblico, senza svenderlo, per abbattere il debito in modo incisivo, riconquistando la credibilità a livello europeo e nei mercati e riducendo gli interessi che paghiamo. Questo ci darà respiro e ci permetterà di investire, di tagliare le tasse e di pensare in grande a un piano di rilancio complessivo del Paese.

È da anni che nei corridoi del potere e in simposi tecnici ed economici, convegni e centri studi gli esperti discutono dell’uso del patrimonio pubblico per abbattere il debito. Ho parlato con quasi tutti gli uomini e le donne intelligenti ed esperti in questa materia, ho letto tutte le analisi, da Paolo Savona ad Andrea Monorchio e Vittorio Grilli, Franco Bassanini, Francesco Giavazzi e tanti altri, per capire cosa suggeriscono. Ho chiesto il parere di Berlusconi, Prodi, D’Alema, Amato, Monti e Passera. E poi mi sono fatto la mia idea su come fare. E la mia idea non assomiglia al piccolo piano annunciato dal governo Letta-Alfano, in cui si realizza qualche vera privatizzazione e qualche giochino contabile. No, così si rischia di svendere ma si rischia anche di fare una mezza misura, di sprecare un’opportunità molto più grande, e anche più giusta nei confronti dei cittadini. Si può abbattere il debito anno per anno, e questo non richiede di mettere subito sul mercato i beni dello Stato. Vediamo come.

Nel mio piano mettiamo le mani, con cautela, su una parte dei 1000 miliardi di beni pubblici, dalle quote delle società come Finmeccanica ed Eni, Enel ma anche le Poste e Ferrovie e i beni immobiliari, dalle spiagge alle caserme dismesse, e facciamo affluire circa 400 miliardi in un nuovo ente o contenitore holding che emette obbligazioni, con un ritmo calibrato di circa 50 miliardi all’anno per un periodo di otto anni. Mentre via via il patrimonio pubblico si trasferisce al nuovo ente, quell’ente usa il patrimonio pubblico come collaterale ed emette delle obbligazioni di lunga durata (almeno dieci anni) ai privati (per metà in modo obbligatorio per le banche, fondazioni e assicurazioni capaci di investire, per un quarto ai singoli in Italia che potrebbero sottoscriverle come fanno con i Btp o i Bot, per un quarto agli investitori internazionali e fondi sovrani di Paesi ricchi con un’operazione ambiziosa ma seria di marketing).

Svizzera, la Ue evoca il blocco dei capitali. L’articolo del Corriere della Sera a firma di Ivo Caizzi:

L’Ue lancia un ultimatum alla Svizzera. Impone al governo di Berna di rispettare l’accordo sulla libera circolazione dei cittadini europei, messo a rischio dall’esito del referendum anti-immigrati stranieri, se non vuole il blocco anche delle attività finanziarie tra le banche svizzere e i 28 Paesi membri.

«Non è possibile accettare la libera circolazione dei capitali e non accettare la libera circolazione delle persone», ha ammonito il presidente di turno del consiglio Affari generali dell’Ue, il ministro greco Evangelos Venizelos, al termine della riunione a Bruxelles dei ministri degli Esteri e delle Politiche europee.

La linea dura dell’Ue, oltre a far saltare i trattati già firmati, prevede di bloccare quelli in corso di negoziazione. Già al mattino la Commissione europea ha annunciato il congelamento della trattativa con la Svizzera sull’elettricità perché «sono necessari nuovi esami alla luce della nuova situazione», scaturita dal referendum anti-immigrati.

La posizione politica dell’Ue è netta. Massimo rispetto per le decisioni degli svizzeri. Ma massimo rispetto anche di tutti i trattati sottoscritti tra Bruxelles e Berna. «Non si può togliere il principio della libera circolazione delle persone senza toccare tutti gli altri accordi» ha confermato il vicepresidente della Commissione europea, lo slovacco Maros Sefcovic, al termine del consiglio Affari generali, ribadendo la linea dura assunta dai ministri europei «all’unanimità».

Venizelos ha spiegato che le libertà fondamentali del mercato unico sono «indivisibili» e non possono essere selezionate «à la carte» dal governo di Berna per assecondare l’esito del referendum anti-immigrati o per nuove convenienze. «La palla è interamente nel campo della Svizzera — ha affermato il ministro degli Affari europei Enzo Moavero —. Non sono stati fatti passi formali per la denuncia o la revisione. Di conseguenza la posizione dei 28 Paesi membri, per ora, è dar modo alla Svizzera di elaborare e prendere decisioni».

Gli accordi firmati riguardano numerosi settori. Vanno dai trasporti agli appalti pubblici, dall’agricoltura fino alla ricerca. In caso di introduzione di quote per gli immigrati europei o per i frontalieri italiani, francesi e tedeschi, potrebbe scattare perfino il blocco della libera circolazione dei treni e degli aerei tra l’Ue e la Svizzera. Svanirebbe anche la possibilità di accordi fiscali.