ROMA Un nuovo attacco contro il ministro Cécile Kyenge è portato dal quotidiano Libero con l’accusa di scarso attivismo per favorire l’occupazione dei giovani, le cui deleghe sono state attribuite al ministero da lui guidato. Secondo Martino Cervo:
Nel nostro Paese la disoccupazione giovanile è cresciuta toccando due giorni fa il 41,6% (cioè i livelli del 1977), in aumento di 0,2 punti rispetto a ottobre e di quattro punti rispetto a novembre 2012. Più in generale, le condizioni in termini di benessere, possibilità salariali e (in prospettiva) previdenziali di chi è nato dopo gli anni ’80 sono nettamente peggiori – in proporzione – rispetto a quelle dei padri. Per misurare il divario tra retorica emergenziale sulle giovani generazioni e interventi concreti di riequilibrio del welfare è utile, per esempio, domandarsi a chi facciano capo le deleghe alle politiche giovanili. Dopo le tormentate vicende di Michaela Biancofiore e JosefaIdem, non sostituitea seguito delle rispettive dimissioni, questa competenza riposa dal 26 giugno 2013 tra le mani di Kashetu Kyenge, detta Cécile, titolare del dicastero dell’Integrazione. Il fatto che possa risultare una novità è già significativo.
Ovviamente non è una delega che può sistemare l’Italia, a cominciare dal dramma della disoccupazione giovanile che il premier ha di recente definito «un incubo». Tuttavia va detto che il ministro Kyenge non pare aver impresso una gigantesca svolta facendo uso di tali deleghe. Il suo impegno, se non altro comunicativo, sembra fin qui decisamente sbilanciato in favore di interventi sull’immigrazione e sulla necessità di introdurre l’istituto dello ius soli, per non parlare di altre polemiche sorte attorno alle sue idee, con contorno di offese belluine rivoltele. Tutto ciò magari ha contribuito a farla finire nei 100 «pensatori globali» di Foreign Policy, ma è difficile immaginare come abbia potuto impattare sulla situazione grave del nostro mercato del lavoro. «I giovani, tutti i giovani, italiani e immigrati, costituiscono una linfa vitale per il Paese», ha detto poche settimane fa il ministro e oculista: «L’obiettivo delle politiche giovanili è quello di vincere la disoccupazione. I giovani musulmani fanno parte delle giovani generazioni. L’obiettivo è quello di combattere la disoccupazione e credo che nel campo del lavoro non debbano esistere le discriminazioni. Siamo tutti uguali.
Quindi la ricerca del lavoro è di tutti quanti». Affermazione indiscutibile, se non altro perché il problema è in effetti diffuso e comune ai 3,2 milioni di cosiddetti Neet, ovvero di italiani che sono nella condizione «not education, employment or training» (non studiano né lavorano): e dunque? A quali azioni concrete prelude la constatazione? Al momento tra le ricerche di lavoro concluse felicemente il ministro può annoverare il caso di Giacomo D’Arrigo, il renziano nominato direttore generale dell’Agenzia per i giovani lo scorso 27 dicembre. Il problema, ovviamente, non è la Kyenge in sé, ma cosa fanno lei e il governo di cui fa parte sul tema. La distribuzione delle dele- ghe non è, aquesto proposito, un fattore secondario: in Europa ci sono ministeri dedicati ai giovani, e i sottosegretari dediti alla pratica lavorano gomito a gomito coi premier. «In molti Paesi OCSE i governi si sono dati figure di raccordo con l’obiettivo di uniformaree farconvergere lepolitiche del welfare e quelle dell’istruzio – ne, uniformando le linee guida dell’esecutivo in due settori che rischiano di andare per conto loro», spiega a Libero Stefano Blanco, Direttore Generale della Fondazione Collegio delle Università Milanesi. «Ad esempio, la Finlandia divide il tema dell’educazione in due ministeri con portafoglio: cultura e giovani. In Irlanda esiste il ministero per bambini e giovani, guidato dall’ottima Frances Fitzgerald. In Inghilterra Gordon Brown ha creato ad hoc il ministero per i giovani, guidato con successo da Dawn Petula Butler fino al 2010». Si tratta, prosegue Blanco, di «posizioni decisive per tentare una sintesi sulle politiche attive, dagli incentivi alle defiscalizzazioni su mobilità, mutui, abitazioni, borse di studio, raccordo con gli enti locali, bonus bebè, fondi comunitari». Esempi che spiegano come spesso la retorica sociologizzante sui giovani sia un ostacolo a politiche attente agli under 30. Non si tratta di filosofia: ma di chi debba pagare il tentativo doloroso di riassetto del welfare che percorre tutti gli stati sviluppati in termini di pensioni, salari, sanità: di benessere. Né si tratta di un problema di anagrafe. Certo, che l’Italia abbia una classe dirigente più agé di quella di molti competitor (58 anni, con vette nel mondo bancario, universitario e giudiziario) può non aiutare chi ha le leve del potere ad assumere prospettive attente ai più giovani, specie finché non votano. Da un altro punto di vista, non depone a favore della «fame» di chi ha qualche lustro in meno. Resta il fatto che anche un particolare apparentemente minore come quello delle deleghe è illuminante sulla differenza tra idea e azione.