Vengono liberati killer di mafia. Comunque assassini collegati alla criminalità organizzata. Uno è Emanuele Zuppardo, siciliano trapiantato a Milano, considerato l’uomo delle «punizioni» a disposizione dei clan all’ombra della Madonnina. Spessore analogo hanno i boss in via di scarcerazione Giovanni Matranga, Francesco Mulè, Giuseppe Dainotti e Giulio Di Carlo: tutti condannati all’ergastolo per l’omicidio nel 1983 del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e dei carabinieri Bommarito e Morici che l’accompagnavano. Il sesto da scarcerare è Andrea Ventura, pluriassassino della mafia catanese. Un altro ancora che potrebbe presto aggiungersi all’elenco è Marino Occhipinti, della famigerata banda della Uno bianca che terrorizzò Bologna.
E sono scarcerazioni-shock, c’è poco da dire. Figlie però di una storia che parte da molto lontano. Da quando, tra il gennaio e il novembre del 2000, fu in vigore una possibilità ultragarantista: chi sapeva di essere destinato all’ergastolo poteva optare per un rito abbreviato, evitando la corte d’assise e i tre gradi di giudizio, e beccarsi così 30 anni.
Questa legge, che porta il nome del deputato Pietro Carotti, un avvocato galantuomo di Rieti, ex comunista, fu cancellata in fretta quando fu evidente che tutti i killer di mafia volevano avvalersene e che l’ergastolo era sul punto di essere archiviato. Per annullarla, il governo dell’epoca fece un decreto poi convertito in legge. Ebbene, quest’ultima norma che cambiava le regole in corsa, è stata poi impugnata. E alla fine la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia. Sono poi seguite sentenze della Corte costituzionale, nel luglio scorso, e della Cassazione, la settimana scorsa. Obbligate. Il risultato adesso è questo: per chi fu condannato all’ergastolo in quegli undici mesi, d’ufficio si torna ai 30 anni.
«Giuridicamente parlando – commenta l’avvocato Roberto Afeltra, che ha seguito l’evolversi della vicenda per i suoi assistiti – la sentenza della Consulta è rivoluzionaria perché si intacca il tabù dell’intangibilità del giudicato».
Afeltra è da anni che insegue questo risultato. La Cassazione, in uno dei tanti procedimenti, lo sbeffeggiò: «Le sue sono tesi fantasiose al limite dell’utopia». E invece. La Corte di Strasburgo ha stabilito che è una violazione dei diritti umani punire un imputato con una pena superiore rispetto a quella prevista dalla legge, anche se poi modificata con altra legge.
Una volta di più, insomma, si tocca con mano il peso crescente della Corte europea di Strasburgo. «Questo succede perché l’Italia è un Paese in cui il diritto viene messo sotto i piedi», conclude Afeltra, che ha il dente avvelenato con chi ha bocciato per anni i suoi ricorsi.
Che poi i beneficiati siano pericolosi assassini, a lui importa poco. O forse no. Perché qui è in gioco un principio giuridico fondamentale: il cosiddetto «favor rei». Cioè, per dirla con semplicità, una legge penale intervenuta dopo che sono stati commessi i fatti di reato può essere applicata se più favorevole all’imputato, non se sfavorevole. «E la mafia si combatte rispettando rigorosamente lo stato di diritto».
Ma la vicenda è anche un colpo micidiale all’istituto dell’ergastolo stesso (attualmente sono circa 1200 gli ergastolani in Italia). In sede europea hanno addirittura affermato che l’ergastolo è contrario ai diritti umani.