Luigi Lucchini, dal nulla creò un colosso, solo nel declino: Castronovo e Polato

Luigi Lucchini, dal nulla creò un colosso, solo nel declino: Castronovo e Polato
Luigi Lucchini, la solitudine della fine

La morte di Luigi Lucchini, all’età di 94 anni, è stata onorata dal Sole 24 Ore con un articolo di Valerio Castronovo.

Sotto il titolo:

“Lucchini, la lungimiranza dell’industriale-presidente”,

Valerio Castronovo scrive:

Luigi Lucchini, figlio di un fabbro e di una contadina della Val Sabbia, “dopo il diploma di maestro elementare e dopo aver imparato un po’ di tedesco, aveva lasciato il paese natale del Bresciano per seguire un corso di filologia romanza all’Università di Heidelberg”.

Durante la seconda guerra mondiale lavorò come impiegato comunale. Finita la guerra, decise di

“cambiare mestiere, occupandosi del commercio del rottame per poi impiantare, utilizzando rotaie fuori uso, un forno elettrico nella fucina del padre”.

Fin da quegli esordi dimostrò di capirne parecchio in materia di produttività, arrivando a ridurre di un terzo gli scarti nella fabbricazione di profilati:

“Di qui era cominciata l’avventura imprenditoriale di Luigi Lucchini, che, in capo a una trentina d’anni, sarebbe divenuto uno dei big della siderurgia italiana, acquisendo uno dopo l’altro vari grossi stabilimenti e aggregandoli sotto le insegne di una holding, le Acciaierie e ferriere italiane, che recava il suo nome.

“Presidente dal 1978 degli industriali bresciani, Lucchini aveva stretto non solo intensi rapporti d’affari con i titolari di altre grandi imprese collaterali o complementari al suo settore. Apprezzato dal leader di Mediobanca Enrico Cuccia (che aveva potuto fare affidamento su di lui per la creazione nel 1980 del Consorzio della Snia) e socio di Luigi Orlando e di Leopoldo Pirelli nella Smi era stato cooptato a pieno titolo nel salotto buono del capitalismo italiano.

“Anche Carlo Pesenti, Pietro Marzotto e Carlo De Benedetti avevano perciò appoggiato la candidatura di Lucchini alla presidenza della Confindustria, che era stata poi sancita da Agnelli, dopo un incontro a Torino nel dicembre 1983”. Ma Luigi Lucchini non volle essere un loro portatore d’acqua:

“A capo di una robusta concentrazione siderurgica e autonomo finanziariamente, avvezzo a dire chiaro e tondo come la pensava e portato da sempre a badare al sodo, impersonava una nuova generazione di self made man. Perciò il suo avvento al timone della Confindustria, dopo quello di Vittorio Merloni, proveniente anch’egli dalle file della piccola-media imprenditoria, segnò una svolta negli annali della Confederazione, che avrebbe contribuito a rafforzare la sua rappresentatività del mondo imprenditoriale e perciò la sua immagine e le sue credenziali.

“Aveva continuato ad ammonire i colleghi di non farsi prendere dall’euforia, dopo il referendum del 1985 sulla scala mobile e dopo il sorpasso nel 1986 della Gran Bretagna da parte dell’Italia come quinta potenza industriale. Tante erano le anomalie e le disfunzioni del sistema Paese per cui occorreva, a suo giudizio, non illudersi di poter vivere di rendita e darsi da fare per migliorare efficienza e produttività in vista di una maggiore competizione nel mercato unico europeo”.

Raffaella Polato sul Corriere della Sera ha ricordato l’amara fine del colosso industriale creato da Luigi Lucchini. Quel patto che portò all’ingresso dei russi nella sua acciaieria

“si rivelò alla fine un patto diabolico: divorò definitivamente il colosso che Luigi Lucchini aveva creato dal niente nel Dopoguerra. Ma se fu questo lento dissolversi del sogno diventato regno industriale a rendere amari quanto un veleno i suoi ultimi anni, a ben guardare le promesse tradite da Severstal e dal suo oligarca, Aleksey Mordashov, non furono il peggio, per il Cavaliere che chiamavamo «d’acciaio».

“Era convinto fosse la soluzione giusta per garantire alle sue aziende e a chi ci lavorava investimenti e, dunque, futuro. Si ritroverà drammaticamente smentito. Ma questo è il senno di poi e in ogni caso, disse quando ancora nel partner arrivato da Mosca credeva, per lui non era quello il punto. Ammetteva che dal 2002-2003 la crisi aveva messo in ginocchio anche lui, il re del tondino, perché la globalizzazione aveva rivoluzionato il mondo e loro, i Lucchini, freschi acquirenti di Piombino dall’Ilva, avrebbero dovuto investire centinaia di milioni (che non avevano) in piena, interminabile fase nera di mercato. Senza il supporto delle banche non sarebbero andati da nessuna parte.

“Sennonché le banche erano già intervenute nel 2003. Ora, tra il 2004 e il 2005, non sono più disposte a farlo. Non alle condizioni che qualcuno ha definito «interventi di sistema» e per altri erano invece, meno nobilmente, «salvataggi di salotto».

“Fatto sta che, quando lo attaccano per aver chiamato i russi, il Cavaliere non ha timori a denunciare: la Lucchini l’avremmo potuta salvare noi italiani, «se le banche ci avessero dato fiducia», se si fossero «comportate in modo costruttivo», se ci fossero stati ancora «un grande e onesto banchiere come Vincenzo Maranghi» e «la Mediobanca di un tempo». Se «non ci avessero lasciati soli».

“Non gli era mai successo prima. Prima, lo cercavano. Adesso, raccontava di aver bussato a tutte le porte, per cercare di rilanciare l’acciaio nazionale con capitali nazionali, di essersi rivolto al presidente del Consiglio (allora Silvio Berlusconi), al superministro dell’Economia (Giulio Tremonti), persino al Quirinale (per un’opinione di Carlo Azeglio Ciampi). Niente”.

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