Marco Travaglio dà voce a milioni di italiani che ancora non capiscono il senso del golpe di Matteo Renzi e non se ne fanno una ragione, come emerge dal dibattito nelle province d’Italia.
Secondo Marco Travaglio è stato un atto non democratico e contro la Costituzione attuato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con l’aggravante che i due presidenti della Camera, Laura Boldrini e del Senato, Piero Grasso, se ne sono stati zitti e buoni come se la cosa non li riguardasse.
In una Repubblica parlamentare, è la tesi conclusiva dell’editoriale di Marco Travaglio di domenica 16 febbraio sul Fatto, Napolitano avrebbe dovuto rinviare Enrico Letta alle Camere
“per verificare se il suo governo avesse ancora (o meno) una maggioranza”.
Invece, mentre Napolitano non l’ha fatto,
“i presidenti delle Camere, Boldrini e Grasso, non hanno avuto neppure la dignità di chiederlo”.
Travaglio si chiede:
“Chi sono gli eversori che profanano il sacro suolo del Parlamento?”.
La domanda è una risposta retoricamente polemica alla premessa dell’articolo:
“Due settimane fa la presidente della Camera, Laura Boldrini, faceva il giro delle sette tv per difendere l’onore violato del Parlamento, paragonare quelli del Movimento 5 Stelle ai fascisti e definirli “eversori”.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si diceva “molto preoccupato per il Parlamento”. Le altre cariche dello Stato e i partiti unanimi facevano quadrato attorno ai sacri palazzi minacciati dalle squadracce pentastellate”.
Segue la ricostruzione degli eventi intercorsi culminati nel golpe di Matteo Renzi e del Pd, che riletti così in fila danno davvero i brividi:
“Poi nello scorso weekend il neosegretario Pd Matteo Renzi, raccogliendo l’appello di tutto il partito, cuperliani inclusi, decideva di prendere il posto di Enrico Letta, giudicando il suo governo una jattura per il Pd e per l’Italia.
Mossa comprensibile e legittima (anche senza passare dal voto: nemmeno Letta era stato scelto dagli italiani), anche se incoerente con le sue dichiarazioni degli ultimi mesi. E il primo a esserne informato era Napolitano, nel corso di una cena tête- à- tête lunedì 10 febbraio.
Ma il contenuto del colloquio di due ore non veniva comunicato né al Parlamento né agli italiani.
Martedì 11 mattina il premier Letta veniva ricevuto al Quirinale per pochi minuti, e ancora una volta il Parlamento e gli italiani venivano tenuti all’oscuro delle cose dette, anche se lo striminzito comunicato del Colle sul “rapido incontro” era una campana a morto per il premier. Tantopiù che qualche ora dopo il capo dello Stato, da Lisbona, faceva sapere che la sorte del governo era affare del Pd.
Eppure, nelle democrazie parlamentari, l’unica fonte di legittimazione del governo è il Parlamento che lo sostiene a nome di tutto il popolo.
Mercoledì 12 mattina Letta e Renzi s’incontravano nella sede del Pd, senza informare né il Parlamento né i cittadini del contenuto del colloquio. Da indiscrezioni si apprendeva però che Renzi aveva comunicato le sue intenzioni a Letta, il quale gli aveva dato la sua disponibilità a farsi da parte. Poi però convocava la stampa nel pomeriggio per sciorinare un programma di legislatura, abborracciato in quattro e quattr’otto “fino a cinque minuti fa”, ragion per cui non aveva potuto mostrarlo a Renzi in mattinata.
E sfidava il segretario a uscire allo scoperto: “Chi vuole il mio posto lo dica”. Tranne gli esegeti del sanscrito politichese, né i cittadini né il Parlamento erano in grado di tradurre quei segnali di fumo.
Giovedì 13 si riuniva la direzione del Pd, cioè un’associazione privata, e sfiduciava il governo Letta 136 a 16.
Il tutto, ancora una volta, all’insaputa delle Camere.
Venerdì 14 Letta riuniva l’ultimo Consiglio dei ministri, poi saliva al Colle per dimettersi nelle mani di Napolitano. Il quale escludeva esplicitamente un passaggio del governo Letta in Parlamento.
Napolitano fissava per l’indomani il calendario delle consultazioni fra i partiti, due dei quali – M5S e Lega – decidevano di non partecipare visto che tutti i giochi erano già fatti.
Vivo rammarico del Quirinale, ma solo per l’assenza della lega.
È la terza volta, da quando Napolitano è presidente, che un governo cade senza il voto del Parlamento, cioè dell’unico organo democratico deputato a sfiduciarlo.
E sarebbe la quarta se Romano Prodi, nel 2008, non avesse respinto le pressioni di Napolitano (raccontate nei diari di Tommaso Padoa Schioppa) a ignorare le Camere e non vi si fosse invece presentato per chiedere la fiducia (poi negata).
Nel novembre 2001 fu la volta di Berlusconi, che andò a dimettersi al Quirinale senza farsi sfiduciare dal Parlamento.
Poi toccò a Monti, che nel dicembre 2012 si dimise nelle mani di Napolitano all’insaputa del Parlamento, solo perché Alfano (a nome del Pdl) aveva dichiarato conclusa la sua esperienza di governo”.
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