ROMA – “Aridatece Cossiga”, Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di oggi (15 ottobre), attacca Napolitano. “Verrebbe da domandarsi – scrive Travaglio – cosa direbbe Napolitano di questo presidente della Repubblica, se non fosse lui”.
Ecco l’articolo:
Dopo i messaggi alle Camere, i videomonologhi di Capodanno, le cerimonie del Ventaglio, i proclami patriottici, le interviste a Scalfari tra upupe e cinghialotti, le esternazioni peripatetiche in giro per l’Italia e per il mondo, le telefonate con Mancino, i conflitti di attribuzioni contro le procure troppo orecchiute, le bacchettate ai passanti che osano chiedere qualcosa, le note ufficiali del Colle e quelle ufficiose di misteriosi “ambienti del Quirinale” (le cucine? i ripostigli delle scope? le toilettes?), il presidente della Repubblica inaugura una nuova forma di comunicazione: il monito luogotenenziale, sul modello dei regi decreti del luogotenente del regno Umberto di Savoia dopo l’abdicazione di re Vittorio Emanuele III parcheggiato a Salerno. Non che re Giorgio abbia abdicato, anzi, ha appena raddoppiato. Semplicemente ha trovato un altro sistema di parlare anche le rare volte che non parla: lo fa, per lui, un apposito giornalista, scelto nel novero dei quirinalisti.
Nella fattispecie il nostro amico Marzio Breda del Corriere, al quale va la più sentita e affettuosa solidarietà. Non che sia la prima volta che Napolitano si esprime per interposto ventriloquo, anzi: l’abitudine a combinarne una delle sue e subito a precettare al salvamento costituzionalisti, giuristi, palafrenieri, aiutanti di campo e corazzieri di complemento, capotosti e desiervi, violanti e quagliarielli, è ormai prassi costituzionale. Ma il monito luogotenenziale contiene un di più: l’avallo esplicito del Presidente, che concede al luogotenente di turno una frasetta innocua e banale da mettere tra virgolette, simile ai pensierini dei Baci Perugina, a cui poi il giornalista-medium appende intere colonne di piombo non virgolettate ma “ispirate”. Ieri la frase-chiave era: “tutti stiano ai fatti”, ma avrebbe potuto tranquillamente essere “attenti al cane”, “non parlare con il conducente”, “non calpestare le aiuole”. Una formuletta multiuso, buona sia per le polemiche sulla controriforma costituzionale che ha riempito Piazza del Popolo di cittadini indignati, sia per l’amnistia e l’indulto che han suscitato il dissenso di Renzi, di Grillo e dei tre quarti degli italiani. Ai 5 Stelle, Napolitano aveva subito risposto con un linguaggio non proprio da educanda: “Se ne fregano del Paese”.
Poi qualcuno deve avergli spiegato che l’arbitro non può levarsi la giacchetta nera e prendere a calci i giocatori di una squadra, così la replica a Renzi è stata affidata al monito luogotenenziale. “Napolitano – si legge sul Corriere – vorrebbe che i fatti valessero anche per la bufera rinfocolata (da chi? come? boh, ndr) su amnistia e indulto. Lui – ha insistito da subito (dove? quando? come? mah, ndr) – non ha fatto alcun messaggio alle Camere per l’amnistia, ma un messaggio per la questione carceraria”. Ah, beh, allora cambia tutto. Resta da individuare il burlone che ha infilato nel messaggio alle Camere sulla questione carceraria la parola amnistia per ben 11 volte e la parola indulto per ben 13, insieme a frasi tipo: “la prima misura su cui intendo richiamare l’attenzione del Parlamento è l’indulto” e “al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia”. Parole che avevano fatto ingenuamente pensare a coloro che “stanno ai fatti” a un messaggio per l’amnistia e l’indulto. Invece era tutto un equivoco: il Presidente scherzava, non vuole né l’amnistia né l’indulto. Del che bisognerebbe prontamente avvertire il premier Letta e i ministri Bonino, Franceschini e Lupi, opportunamente selezionati ieri per assestare la meritata dose di legnate al malcapitato di turno (Renzi), reo di dissentire su amnistia e indulto e di ritenere financo che la carica il capo dello Stato non sia cumulabile con quelle di segretario del Pd e di capo del governo, del Parlamento, dei giudici e della stampa. Dal monito luogotenenziale trapela poi “l’amarezza di Napolitano per le critiche” sulla controriforma dell’articolo 138 della Costituzione e sullo sgorbio partorito dai 38 “saggi” di Letta e di governo.
Essi furono nominati non si sa come né perché dal governo e revisionati da Napolitano, che ne tolse qualcuno e ne aggiunse qualcun altro, poi li ricevette tutti insieme in una festosa cerimonia al Quirinale, con ministro Quagliariello a capotavola, molto simile alle adunate degli Accademici d’Italia a Palazzo Venezia dinanzi al Duce. Il primo destinatario dell’ “amarezza” è Gustavo Zagrebelsky, unico presidente emerito della Consulta che abbia osato sollevare obiezioni: il monito luogotenenziale lo invita caldamente a “non chiamare in causa il Presidente, perché non è lui che elabora le riforme” (ha trovato dei prestanomi). E soprattutto a “rileggersi tutto l’insieme” dei “documenti agli atti della storia repubblicana” (niente di meno). E di non farlo così, en passant, ma “con freddezza e onestà”. Tocca dunque sorbirsi tutte le pippe dedicate alla riforma costituzionale non solo da Napolitano (omettendo, per carità di patria, i solenni giuramenti sul no alla rielezione), ma anche dai suoi predecessori fino a Scalfaro (che peraltro il 138 voleva rafforzarlo, non scassinarlo). Cossiga meglio di no: si potrebbe scoprire che Napolitano ne chiedeva l ’ impeachment (come oggi fa Grillo con lui) perché parlava troppo e picconava la Costituzione su cui aveva giurato. E, sempre “stando ai fatti”, verrebbe da domandarsi cosa direbbe Napolitano di questo presidente della Repubblica, se non fosse lui.