ROMA – “E’ innocente, ma deve dimettersi” è il titolo dell’articolo a firma di Marco Travaglio sulle pagine del Fatto Quotidiano:
Dopo la condanna in primo grado per abuso d’ufficio a 1 anno e 3 mesi, Luigi De Magistris deve lasciare la carica di sindaco di Napoli. Perché è giusto così e perché la legge Severino stabilisce la sospensione senza possibilità di scappatoie (che sarebbe anche poco decoroso imboccare, magari in attesa che il prefetto lo iberni fino all’eventuale assoluzione d’appello). Sono decine i consiglieri regionali, provinciali e comunali sospesi o rimossi per una condanna in primo grado o per una misura cautelare. E la legge è uguale per tutti, come De Magistris ben sa, avendo fatto della Costituzione il faro della sua vita professionale, prima da pm e poi da sindaco. Ciò premesso, parliamo del processo che ha originato la sentenza dell’altroieri, di cui siamo ansiosi come non mai di leggere le motivazioni.
Chi conosce i fatti alla base del processo a De Magistris e al suo consulente tecnico Gioacchino Genchi ai tempi dell’inchiesta “Why Not” a Catanzaro, poi scippata da una manovra di palazzo, non può che meravigliarsi per la condanna dei due imputati e pensare a un tragicomico errore. Purtroppo, come sempre, i fatti li conoscono in pochi, men che meno chi ne scrive. Sui giornali si leggono ricostruzioni fantascientifiche: La Stampa vaneggia addirittura di “intercettazioni illegali”, “a strascico” e di un “elenco sterminato” di galantuomini spiati da Genchi con un “metodo” che sarebbe stato bocciato dalla sentenza. Bal-. processo non ’“ ” (perfettamente lecito: il consulente riceveva tabulati e intercettazioni da decine di procure e tribunali per “incrociarli”, dare un senso ai legami che ne emergevano e smascherare autori di stragi, omicidi e altri gravissimi delitti), né fantomatiche “intercettazioni”. Ma soltanto tabulati telefonici: cioè elenchi di numeri di utenze a contatto – in entrata e in uscita – con i telefoni degli indagati. Nemmeno una parola sul contenuto (che si ricava dalle intercettazioni).
Nel 2007, su mandato del pm De Magistris, Genchi acquisì dalle compagnie telefoniche i dati su centinaia di tabulati, incappando – ma questo lo si scoprì solo alla fine – anche in quelli di cellulari in uso, secondo l’accusa, a 8 parlamentari (Prodi, Mastella, Rutelli, Pisanu, Gozi, Minniti, Gentile, Pittelli). Di qui l’accusa di averli acquisiti senz’avere prima chiesto al Parlamento il permesso di usarli, violando la legge Boato e l’immunità dei suddetti. Un ingenuo domanderà: come fai a sapere che quel numero telefonico è di un onorevole? Prima acquisisci i dati dalla compagnia poi, se scopri che l’intestatario è un eletto, chiedi alle Camere il permesso di usarlo. I giudici di Roma però sono medium, o guidati dallo Spirito Santo: appena leggono un numero, intuiscono subito che è di un parlamentare. Ergo non si spiegano perché De Magistris e Genchi chiedessero a Tim e Vodafone di chi fosse questo o quel numero: dovevano saperlo prima, per scienza.
Purtroppo De Magistris e sono sprovvisti di virtù paranormali. E rispondono di abuso d’ufficio. Questo fra l’altro non è più reato dal ’97, salvo che produca un “danno ingiusto” o un “ingiusto vantaggio patrimoniale”. E quale sarebbe il danno patito dagli 8 politici? La “conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”. Cioè: c’era la possibilità che si sapesse con chi telefonavano. Come se le frequentazioni con personaggi poco limpidi fossero colpa non di chi le intrattiene, ma degli inquirenti che scoprono, peraltro in un’indagine segreta. C’è pure un problema di competenza, visto che sui reati dei pm di Catanzaro è competente la Procura di Salerno, non di Roma. Però decise di occuparsene lo stesso il pm Achille Toro, già in contatto con personaggi emersi in Why Not e poi costretto a lasciare la toga perché coinvolto nello scandalo Cricca. Pazienza se, dall’accusa di abuso d’ufficio per i tabulati di Mastella, De Magistris e Genchi erano già stati inquisiti e archiviati a Salerno (…)
I commenti sono chiusi.