ROMA – “L’imbalsamatore fallito”, l’imbalsamatore, secondo Marco Travaglio, è Giorgio Napolitano: “Tutto cominciò il 22 aprile, con il discorso della Corona del ripresidente Napolitano. Fra una frustata e l’altra ai partiti che l’avevano rieletto, l’Imbalsamatore commissariò il Parlamento dettandogli le sue condizioni”.
Ecco l’editoriale:
“Se mi troverò di nuovo – minacciò – dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese”. Cioè si sarebbe dimesso, lasciando i partiti in mutande, orfani del loro Lord Protettore. Applausi, standing ovation, ola. Da quel dì sono trascorsi 226 giorni. Risultato: il governo di larghe intese non c’è più; le riforme dei saggi di prima infornata sfuggono ai radar; quella del 138 è stata votata solo tre volte e alla quarta Forza Italia s’è sfilata, così addio maggioranza dei due terzi, dunque referendum confermativo, ergo meglio ritirarla (non farebbe guadagnare, ma perdere tempo); le bozze dei saggi di seconda infornata, senza il 138-turbo andranno alle calende greche; la legge elettorale non c’è, perché i partiti non sono d’accordo fra loro né al proprio interno; il presidente del Senato butta la palla alla Camera perché, tanto per cambiare, gli vien da ridere; la Consulta che potrebbe imporre qualcosa, opportunamente monitata, decide di rinviare.
Come tutti, del resto. Una catastrofe. O, per dirla con il Wall Street Journal, “la stabilità del cimitero”. Con la differenza che i cadaveri freschi qualche fremito ce l’hanno: si chiama rigor mortis. Il governo Napo-Alfetta, nemmeno quello. Nessuna, dicesi nessuna delle condizioni poste da Napolitano per la sua ripermanenza sul Colle si è verificata: fallimento su tutta la linea. Come del resto era ampiamente prevedibile fin da aprile: non si può raddrizzare il legno storto della politica italiana con un paio di moniti, cioè imporre dall’alto, dall’oggi al domani, dopo quella campagna elettorale, un’alleanza innaturale a partiti che non vanno d’accordo su nulla, se non sui soliti regali alle banche e all’Ilva, sulla conservazione delle poltrone e sul terrore di nuove elezioni. Completa il quadro la miserevole qualità di quasi tutti i ministri: uno si fa organizzare il sequestro e la deportazione della moglie e della figlioletta di un dissidente kazako sotto il naso senz’accorgersi di niente; una si mette a disposizione della famiglia Ligresti, appena arrestata in blocco; un altro litiga col suo vice per gli appalti miliardari di Expo; e quello che dovrebbe essere il pezzo più pregiato della collezione, il supertecnico Saccomanni, tenta da sei mesi di abolire l’Imu, ma non ci riesce perché gliene scappa sempre un pezzo. I nodi vengono al pettine tutti insieme.
Quando i partiti andarono da lui in pellegrinaggio per implorarlo di ricandidarsi (così almeno ci han fatto credere), terrorizzati da quattro scrutini presidenziali a vuoto (situazione tutt’altro che eccezionale, anzi normale), Napolitano avrebbe potuto, anzi dovuto rispedirli a Montecitorio a votare. Per sostituirlo con una figura che somigliasse vagamente all’esito delle elezioni. Dopodiché un governo meno brancaleonesco di questo sarebbe nato: magari “di scopo”, con un accordo vero su pochi punti sino a fine anno, per mandarci a votare in primavera con (o anche senza) una nuova legge elettorale. Chi ha pensato di ribaltare, anzi di ignorare il voto degli italiani con le solite manovre di palazzo, e i soliti protocolli segreti salva-Berlusconi, ora ha quel che si merita. Il guaio è che il prezzo lo paga anche chi non lo merita.