ROMA – “La nostra ben nota ammirazione per Piero Ostellino – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano – si sta trasformando in vero e proprio culto della personalità: i suoi ultimi interventi sul Corriere e anche fuori fanno di lui un mito vivente. Specie la sua adesione al “contro-manifesto dei liberali” pubblicato ieri dal Giornale di Sallusti (noto epigono delle scuole crociana ed einaudiana, corrente Santanchè) in polemica con quello di Libertà e Giustizia sottoscritto da Zagrebelsky, Rodotà, Pace, Carlassare e altri sulla svolta autoritaria”.
Questi autonominati “liberali” – tali Bedeschi, Berti e Cofrancesco – hanno imbarcato, per far numero, il socialista Luciano Pellicani, che tutti ricordano alla corte molto liberale di Craxi. Sono i liberali alle vongole che esercitano in Italia la funzione opposta a quella degli intellettuali nelle democrazie liberali: bastonano qualunque opposizione e difendono chiunque stia al potere. Non propongono mai un’idea, una riforma, una trovata, un aforisma, una didascalia. Ma trovano “intollerabile”, “ridicolo”, “grottesco” che Zagrebelsky & C. osino criticare le riforme Renzusconi, “senza averne l’autorità morale né il prestigio intellettuale”. Poteva mancare, nell’allegra brigata, Ostellino? No che non poteva. Lui del resto di autorità morale e prestigio intellettuale ne ha da vendere. Un giorno tuonò contro il malvezzo illiberale di multare i pirati della strada (“il limite di velocità è diventato una forma di lotta di classe e l’autovelox l’incrociatore Aurora che dà il via alla rivoluzione egualitaria”): un vigile comunista doveva averlo multato perché sfrecciava ai 200 all’ora. Un’altra volta svelò l’origine, tutta morale e intellettuale, della sua atavica avversione per la magistratura: “Mi è bastato di averci avuto a che fare una sola volta per convincermene”. Fu quando denunciò Dagospia per diffamazione, vinse la causa, incassò un lauto risarcimento, poi però in Cassazione la somma “fu ridotta a meno di un terzo di ciò che aveva già fissato la seconda sentenza che aveva già ridotto d’un terzo l’indennizzo della prima”. E lo sventurato dovette “restituire pressoché tutto ciò che avevo incassato” e magari speso. Incredulo e inconsolabile dinanzi a tre gradi di giudizio che non si limitano a fotocopiare i verdetti del grado precedente (perché “si perviene a sentenze poi smentite anni dopo”?), Ostellino si dipinse come un Solgenitsin perseguitato “perché politicamente antipatico” e mise gli eventuali lettori a parte del suo dramma, forse sperando in una colletta. Ma sempre animato dal più assoluto disinteresse personale, nonché da robuste dosi di autorità morale e prestigio intellettuale. Infatti ultimamente è impegnatissimo in una campagna all’arma bianca contro il contributo di solidarietà di qualche spicciolo richiesto da Renzi ai pensionati da 2. 500 euro in su. Tipo lui, per esempio. Al tema ha già dedicato tre articoli in nove giorni, e non ha mica finito. Nel primo definisce “il prelievo sulla mia pensione” un atto illiberale di “confisca” degno del “dirigismo” dei “sistemi socialisti”, del “giacobinismo”, del “Terrore” e del “totalitarismo”. Seguono le consuete citazioni col copia-incolla dei soliti “Burke, Constant, Tocqueville”, con preoccupante trascuratezza per Stuart Mill che lui tira sempre in ballo quando qualcuno gli pesta un callo. Nel secondo, risponde ai lettori che l’hanno insultato per il primo e, già che c’è, dà una sistemata alla “cultura pauperista, a metà (ancora fascista) e per l’altra metà catto-comunista”. Poi respinge l’accusa di badare solo al proprio “orticello”: “Io difendo i diritti e le libertà dell’uomo qualunque che il dispotismo burocratico tiranneggia”, e pazienza se l’uomo qualunque si chiama Ostellino Piero. Càpita. La chiusa è tipicamente liberale: “Affogate pure nel vostro sinistrismo parolaio. Io mi sono scocciato. Andate al diavolo!”. Nel terzo, rimedia a una dimenticanza degli altri due e accomuna “la sinistra renziana” (un ossimoro) all’ “egualitarismo totalitario comunista”. Ora si spera che la sua callista giacobina non gli infiammi il durone che ha sull’alluce, sennò chi lo sente.