ROMA – Matteo Renzi è un “guappo di cartone“, anzi è “l’ultimo guappo di cartone” è l’immagine feroce cui ricorre Marco Travaglio, nel suo articolo per il Fatto di domenica 27 luglio 2014. Con un caveat: gli italiani potrebbero “rottamare con largo anticipo sui predecessori” Matteo Renzi, se, non porterà risultati concreti, oltre a confondere presenzialismo con presidenzialismo e imbucarsi nelle feste altrui (dalla partita del cuore alla Costa Concordia al trionfo di Nubali); tra i risultati concreti non si può certo includere certo la riforma del Senato, che non interessa proprio a nessuno, se non allo stesso Renzi e, ci permettiamo di aggiungere, a chi lo ha fatto andare a Palazzo Chigi.
L’articolo parte dal copyright del guappo di cartone, che Marco Travaglio attribuisce a Indro Montanelli che la usò per Bettino Craxi; è divertente e largamente condivisibile, tranne un paio di inesattezze:
1. Montanelli non è stato “il più grande giornalista di sempre” in Italia, essendo preceduto nella classifica da Eugenio Scalfari, non solo e non tanto per gli articoli e i libri scritti, scivolati sull’acqua dell’effimero,ma i giornali da loro fondati. La Repubblica di Eugenio Scalfari è ancora una potente macchina di copie, consenso e denaro, che per 30 anni ha elargito ricchezza; il Giornale di Indro Montanelli non risulta abbia mai portato veri profitti ai suoi azionisti, che alla fine hanno lasciato soli a coprire le perdite prima Silvio Berlusconi poi il fratello Paolo Berlusconi.
2. La parola “subito” riferita all’allarme che suscitò in Montanelli l’ambizione quasi napoleonica di Berlusconi: Berlusconi è diventato azionista del Giornale di Montanelli nel 1977 mentre l’allarme di Montanelli è datato da Travaglio nel 1993, quando Berlusconi
“preannunciò la sua “discesa in campo”, [da cui nacque] la miscela esplosiva […] fra i tratti caratteriali del suo ex editore e la voglia di padrone che alberga nella pancia di una certa Italia”.
Inesattezze frutto della devozione di Marco Travaglio alla memoria di Montanelli e la cosa è lodevole.
Seguiamo ora il ragionamento di Marco Travaglio su Matteo Renzi. Il confronto evoca una imponente figura del passato, Benito Mussolini e poi ancora quella di Bettino Craxi, prima di Berlusconi:
Fra il Duce e Berlusconi ci fu un altro politico italiano che provò a diventare padrone, e per un po’ ci riuscì: Craxi. Nel 1983, quando andò al governo, Montanelli sul Giornale lo salutò così:
“Come uomo di partito, Craxi ha certamente grossi numeri. Come uomo di Stato, è tutto da scoprire… È arrogante, un po’ guappesco e sembra avere del potere un concetto alquanto padronale… Craxi ha una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i politici immuni da questo vizio. Ma alcuni sanno almeno mascherarlo. Craxi è di quelli che l’ostentano sino a esporsi all’accusa di ‘culto della personalità… che potrebbe procurargli guai seri. Non perché a noi italiani certi atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché in fatto di guappi siamo diventati, dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”.
E così fu: alla protervia di Craxi, che eccitava gl’intellettuali, gli italiani preferivano il grigio e molliccio understatement dei democristiani, che sapevano gestire il potere senza quasi farsene accorgere.
Soltanto Berlusconi, grazie al fascino del denaro, del successo e delle tv, riuscì a far digerire per vent’anni il suo guappismo molesto.
Chissà cosa direbbe Montanelli oggi del suo quasi concittadino Matteo Renzi, rara avis di democristiano che posa un po’ da Craxi e un po’ da Berlusconi. Certo, il ritratto di Bettino gli calza a pennello. Tranne forse la profezia finale: a giudicare dalle Europee, si direbbe che ne vogliamo un altro, di guappo di cartone. Renzi ne è convinto e ci marcia. Ma esagera.
Nel bene e nel male, non è Berlusconi: gli mancano i soldi, le tv, l’aura di successo e i crimini. Finché non è entrato a Palazzo Chigi, non ha sbagliato una mossa. Da quando è al governo, non ne ha più azzeccata una: gli 80 euro, con il loro effetto nullo sui consumi, sono già evaporati; le riforme su cui s’intestardisce –Senato e titolo V–non interessano a nessuno e, anche se riuscisse a condurle in porto, non migliorerebbero la vita a nessuno (salvo che a lui), mentre quelle che potrebbero cambiare il Paese in meglio segnano il passo o sono lettera morta.
Eppure, con un così magro bottino di risultati, specie a fronte delle promesse fatte e delle aspettative create, continua a svolazzare come se il consenso fosse eterno. E cade nell’errore fatale di confondere il presenzialismo con il presidenzialismo: non basta baciare bambini, fare selfie con le fan, ingravidare madame con un’occhiata, twittare e messaggiare a ogni ora del giorno e della notte, imbucarsi nelle feste altrui tipo la partita del cuore o l’arrivo degli orfani dal Congo o della povera Meriam, rivarare la fu Costa Concordia come la contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare e poi volare a Parigi truccato da Miss Tour de France per calzare la maglia gialla di Nibali, insomma travestirsi da sposa ai matrimoni e da salma ai funerali, per avere in pugno l’Italia.
Complice la crisi, data prematuramente per scomparsa, gli italiani potrebbero stufarsi di lui molto prima di quanto sospetti. E rottamare anche l’ultimo guappo di cartone, con largo anticipo sui predecessori.
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