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Mose, appalti: 20% aziende pubbliche, 60% private, 20% coop rosse

di FIlippo Limoncelli |5 Giugno 2014 11:59

Venezia, la prima volta del Mose (LaPresse)

ROMA – Mose fa scandalo: per la grande ruberia che vi ha messo radici, per i tempi biblici della sua non ancora completata realizzazione.

C’è un dettaglio relativo al sistema degli appalti che viene portato alla luce da Giorgio Meletti sul Fatto Quotidiano: è la chiave del sistema spartitorio che è il corrispettivo dell’arco costituzionale in voga fino a metà anni 90. Poi è subentrata la Seconda Repubblica e l’abbraccio è diventato globale, come insegnano tutti gli scandali legati a pubbliche ruberie e spartizioni. Ma lo schema di base è rimasto quello.

Le modalità della spartizione degli appalti, ricorda,

“sono anni 80. […] Non c’è vera tangente, […] c’è la spartizione a monte tra le imprese di costruzioni; e infine la retrocessione ai politici dell’ampio grasso accumulato a spese del contribuente. Lo stesso meccanismo dell’alta velocità”.

Prosegue Giorgio Meletti:

“Sono ancora tutti lì, e lo scienziato pazzo di Jurassic Park è il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, che già vent’anni fa arrestò e interrogò Piergiorgio Baita per gli stessi affari per cui l’ha dovuto ricatturare. E oggi rivede i suoi dinosauri ancora in cerca di cibo”.

Tutto ebbe inizio a metà anni ’80. A Palazzo Chigi c’è Bettino Craxi, alla presidenza dell’Iri il democristiano Romano Prodi e sotto di lui c’è l’Italstat di Ettore Bernabei, il vero ministero dei Lavori pubblici. Bernabei è inciampato nello scandalo dei fondi neri Iri, ma Prodi l’ha perdonato. Ed è nell’ufficio di Bernabei che nasce l’idea del Consorzio Venezia Nuova, una all stars di costruttori che si spartiranno il grande affare delle “paratoie mobili” che salveranno Venezia dall’acqua alta.

“Il braccio destro di Bernabei, Mario Zamorani, racconterà a Nordio che le quote erano precise: 20 per cento dei lavori alle aziende Iri, 60 a quelle private, 20 per cento alle cooperative rosse. Sono passati 30 anni, le quote sono ancora le stesse.

Nessuno ha ricordato invece che sulla lunghezza dei tempi e quindi sulla levitazione dei costi e sulla proliferazione delle mazzette hanno influito, rallentando tutto per anni e anni, anche le obiezioni di natura ambientale, giuste o meno, ideologiche e pregiudiziali o sacrosante che sia, che hanno inquinato le acque di Venezia fin da quando il Mose era solo un progetto e una chiusa dimostrativa in mezzo alla Laguna.

Una ricostruzione storica è fatta sulla Stampa da Giuseppe Salvaggiulo.

(…) Sprofondata di 26 centimetri in un secolo, sommersa nel 1966 da onde alte sei metri in mare e quasi due sulle case, Venezia è già un caso internazionale. La prima legge speciale è del 1973, la seconda del 1984, la terza del 1992. Si decide di «porre gli insediamenti urbani al riparo dalle acque alte anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolazione delle maree».

Il sistema di dighe mobili, mutuato dalla foce del Tamigi, è preferito alle barriere permanenti, per evitare l’effetto-stagno. Il progetto prevede 78 paratoie (larghe 20 metri, lunghe da 50 a 100, spesse 3,5) nelle tre bocche della laguna. Con il mare calmo, si riempiono d’acqua e s’adagiano sui fondali. Con onde oltre il metro e venti, scaricano l’acqua e gonfie d’aria compressa si tirano su, bloccando la marea.

Il progetto, voluto da ministero delle Infrastrutture e Regione, viene contestato da più parti: Comune, Provincia, ministero dell’Ambiente, Italia Nostra, Wwf, Legambiente, comitati locali, Verdi e Movimento 5 Stelle. Obiezioni ambientali: impatto devastante che snatura la laguna, si potrebbe ottenere il controllo delle maree con soluzioni soft. Obiezioni funzionali: il sistema di allerta per attivare le barriere potrebbe non funzionare; il Mose potrebbe andare in tilt in caso di pioggia o afflusso abnorme di acqua dai fiumi; cambiando le maree, in pochi decenni potrebbe rivelarsi inutile; sono state ignorate le conseguenze nefaste sul porto. Obiezioni economiche: ha senso spendere tanto per un’opera utile cinque volte l’anno per 4 ore (l’uso per maree più basse impedirebbe la «pulizia» della laguna, con effetti inquinanti)?

Dal 1988 al 1992 un pool di ingegneri idraulici lavora su modelli sperimentali, anche con modifiche del progetto. Ma i problemi continueranno. Solo una forte volontà politica bipartisan consentirà di superare le bocciature del Consiglio superiore dei lavori pubblici e del ministero dell’Ambiente. Studi tecnici contrastanti si accavallano a decine di esposti a magistratura e Unione europea. Bruxelles attiverà anche una procedura di infrazione per violazione di norme ambientali, poi tamponata con opere compensative, peraltro di dubbia utilità.

Anche il sistema del contraente unico è stato molto contestato. Lo Stato ha abdicato. Il Consorzio di imprese Venezia Nuova, a cui sono state affidate in monopolio pianificazione, progettazione e realizzazione, non viene scelto con una gara, ma a trattativa privata. Funzioni pubbliche pagate con soldi pubblici sono delegate in toto a un soggetto privato, in deroga alle leggi. Ci sono gli organi di controllo, si dice. Ma quelli tecnici e indipendenti vengono informati poco e male. Quelli politici fanno altro: cose non commendevoli, si scopre ora.

Inevitabile che il Consorzio, ebbro di quattrini e potere, diventasse il padrone di Venezia. Ha annoverato presidenti come Luigi Zanda (ora capogruppo del Pd in Senato) e Franco Carraro (ora senatore di Forza Italia). Finanziava iniziative culturali e sociali, oltre che candidati di sinistra e di destra. Era «un problema di democrazia», ammoniva nel 2009 l’economista Francesco Giavazzi. Conflitti di interessi e scarsa trasparenza, denunciava invano la Corte dei conti (…)

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