Andrea Orlando: “Nelle carceri italiane si fa festa per attentati Isis”

Nelle carceri italiane si fa festa per attentati Isis
Nelle carceri italiane si fa festa per attentati Isis (Foto archivio Ansa)

ROMA – Nelle carceri italiane sono 300 gli estremisti islamici che hanno fatto festa per gli attentati terroristici dell’Isis in Europa. Proprio nelle carceri, come nei luoghi di culto, avviene il processo di radicalizzazione dei fedeli islamici. Un modo per osservare questo fenomeno e monitorarlo è quello di individuare chi festeggia gli attentati di Parigi o di Nizza, soprattutto se non era stato ancora inserto nella lista dei “radicalizzati” e la misura presa al momento è lo spostamento in altri istituti carcerari per evitare il proselitismo.

Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera ha intervistato Andrea Orlando, ministro della Giustizia, che spiega come in tempi di attentati terroristici da parte dell’Isis e di forti tensioni e timore per nuovi attacchi sia importante indagare sul flusso migratorio verso l’Europa, che potrebbe essere gestito proprio dallo Stato islamico, e soprattutto sulla condizione degli estremisti in carcere in Italia:

“C’è il sospetto di una «centrale italiana» che gestisce il traffico e lo smistamento anche da qui?
«Di questo non ci sono evidenze. Si sospettano canali di finanziamento del terrorismo attraverso le organizzazioni che fanno partire i migranti da Egitto e Libia, decidendo quanti mandarne in Italia, quanti in Grecia o altrove».

L’altro punto critico, per ciò che riguarda le sue competenze, è l’infiltrazione del radicalismo islamico nelle carceri. Ci sono particolari segnali di allarme?
«Grazie al monitoraggio continuo abbiamo rilevato, dopo gli ultimi fatti di terrorismo, manifestazioni di esultanza e di simpatia nei confronti degli attentatori. Anche da parte di chi non era stato ancora segnalato come “radicalizzato”. In tutto, rispetto ai circa 10.000 detenuti di religione islamica, di cui 7.500 praticanti, parliamo di 350 persone che a vario titolo destano segnali di preoccupazione. All’interno di questo numero comunque esiguo, visto che siamo intorno al 5 per cento, ci sono quelli che hanno manifestato giubilo dopo gli attentati di Parigi o di Dacca, ma anche qualcuno che invece ha dato segni di dissociazione».

E l’amministrazione penitenziaria come reagisce?
«Interveniamo con gli spostamenti da un istituto all’altro e altre precauzioni, anche per evitare il rischio del proselitismo. Il nostro modello non è Guantanamo. La nostra risorsa è il coordinamento reale tra forze di intelligence e di polizia, che ci consente di seguire i sospettati anche una volta scarcerati finché ce ne sono i presupposti; in alcuni casi si tratta di “falsi allarmi”, ma in altri si arriva a decidere l’espulsione dei soggetti che continuano a destare preoccupazione».

In carcere e fuori, i luoghi di preghiera sono quelli in cui possono innescarsi i processi di radicalizzazione. C’è chi chiede di chiudere le moschee, mentre voi avete preso un’altra strada. Perché?
«Perché noi abbiamo bisogno che da quel mondo emerga il più possibile, in modo da poter controllare ciò che avviene. Noi dobbiamo garantire la libertà di culto, anche perché così si evita il pretesto dei diritti religiosi negati, e insieme monitorare il fenomeno del proselitismo radicale in ambito religioso. Se spingessimo gli islamici a chiudersi in luoghi di culto clandestini, dove può avvenire qualunque cosa, sarebbero più forti i segmenti radicali. Quindi nessun divieto, ma anche nessuna zona franca. Ne vale per la sicurezza nazionale».

Le comunità islamiche sono pronte ad accettare i controlli?
«Abbiamo avuto atteggiamenti di disponibilità, però sono d’accordo con chi chiede prese di posizione più chiare da parte delle comunità islamiche. È accaduto in Francia dopo l’ultimo atto di terrorismo, mi auguro che accada anche in Italia»”.

 

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