ROMA – La candidatura di Federica Mogherini all’incarico di Alto rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune della Ue (Pesc) è sempre più appesa ad un filo. Tanto che Matteo Renzi si vede costretto amettere sul tavolo il piano B. E che piano B: Massimo D’Alema. L’emblema stesso della rottamazione.
Scrive Marco Gorra su Libero:
Ieri, 28 luglio, l’ex premier – quasi si volesse dare alla cosa il crisma dell’ufficiosità – è stato ricevuto per un’ora dal premier a Palazzo Chigi. Poco dopo, il capogruppo socialista a Strasburgo Gianni Pittella annunciava urbi et orbi che «la candidata del governo italiano è Mogherini» ma anche che «se qualcuno dovesse continuare questa speciosa strumentalizzazione sulla sua presunta incompetenza o inesperienza c’è la candidatura di D’Alema».
Il clamoroso rientro in pista dell’ex premier arriva dopo dodici giorni – tanti ne sono passati dalla fumata nera dell’ultimo euro-vertice sulle nomine – di palpabile tensione sull’asse Roma-Bruxelles. Da una parte Palazzo Chigi ad insistere contro tutto e contro tutti sulla Mogherini e dall’altra Rue de la Loi a cercare di convincere il premier italiano a cambiare cavallo prima di andare a sbattere contro i veti dei partner europei che mal tollerano l’imposizione di una candidata così poco esperta e così tanto filorussa. I tentativi di moral suasion attuati da Jean Claude Juncker finora non sembravano avere dato esito.
A nulla era servito aver fatto trapelare il nome di Enrico Letta per il Consiglio europeo (ventilando nel caso i voti del Ppe a scatola chiusa) così come avere dato agli Stati la dead line di fine luglio per indicare il proprio candidato: all’appello del presidente della Commissione hanno risposto una ventina di Paesi, tra i quali l’Italia non figura.
Venerdì scorso una telefonata per suggerire di pensarci meglio. Ancora ieri, intervistato dal giornale lussemburghese Le quotidien e richiesto di un commento sul caso Mogherini, Juncker si trincerava dietro un sibillino «se una maggioranza convincente di Paesi membri è a favore di un candidato o di un altro non sarò io a bloccare questa proposta», che come endorsement non è granché. Eppure, sembra che alla fine la goccia abbia scavato la pietra e Renzi abbia ceduto. Niente di ultimativo (a sera le veline di Palazzo Chigi si affannavano a sottolineare che «la linea dell’Italia non cambia»), ma il segnale c’è ed è ben preciso: il governo italiano è disposto a non immolarsi per mandare la Mogherini a Bruxelles. Ufficialmente è perché ancora non c’è certezza sull’incarico: finché non si è sicuri che la Pesc tocca all’Italia non si fanno nomi.
Il punto è la variabile cui è legata questa certezza: se i francesi riescono a piazzare Pierre Moscovici agli Affari economici allora l’Italia avrà il sostegno di Parigi nella corsa alla Pesc.D iversamente l’Alto rappresentante rischia di andarlo a fare la transalpina Elisabeth Guigou, scenario in cui l’Italia dovrebbe rimescolare da cima a fondo le proprie carte. Sicura a quel punto l’uscita di scena della Mogherini (che solo di Esteri si è occupata in vita propria e non avrebbe curriculum per nessun altro posto), toccherebbe schierare D’Alema, che invece ha esperienza e know how per ricoprire più di un incarico europeo. Che Renzi non sia entusiasta della prospettiva è intuibile. D’Alema è stato il totem negativo della sua ascesa ai vertici del Pd, e non si contano le volte in cui il premier ha giurato che mai alcuna compensazione postuma sarebbe stata tributata a quello che ormai considerava un ex rivale (…)
Scrive Stefano Sansonetti sul Giornale:
Un incidente diplomatico che il governo guidato da Matteo Renzi sta disperatamente provando a tenere nascosto. La realtà è che qualche giorno fa l’esecutivo ha compiuto un passo falso grave, che apre squarci inediti sulle ragioni che hanno stroncato la corsa del ministro degli Esteri, Federica Mogherini, alla poltrona di Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione europea. Cosa succederà adesso, visto che proprio ieri il neo presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker ha chiesto a tutti i 28 Paesi Ue di mettere le carte in tavola e indicare i nomi dei candidati entro la fine del mese? La maggioranza delle cancellerie ha già risposto, l’Italia ancora no.
Il pasticcio dell’esecutivo al momento coinvolge quattro paesi: Italia, Francia, Azerbaigian e Armenia. Ma le sue ripercussioni si stanno facendo sentire anche sull’Unione europea. Senza contare che l’affaire è legato a doppio filo a enormi interessi economici che ruotano intorno al gas. Come è in grado di dimostrare la documentazione in possesso del Giornale, tutto nasce da un accordo economico-politico firmato lo scorso 14 luglio a Roma da Renzi e dal presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, in visita in Italia proprio quel week end. Tecnicamente parliamo di una Joint declaration on strategic partnership, in pratica una dichiarazione congiunta con cui Italia e Azerbaigian avviano e allargano tutta una serie di rapporti, soprattutto in campo economico. Questo atto, però, contiene un passaggio che fa andare su tutte le furie un paio di paesi, di cui uno europeo: la Francia. Da noi la questione passa totalmente sotto silenzio, nel tentativo di mettere una pezza che per ora è peggio del buco. Si dà il caso che nel Caucaso da decenni siano in corso tensioni di non poco conto tra Azerbaigian e Armenia, concentrate intorno alla cosiddetta guerra del Nagorno-Karabakh. Per i due paesi asiatici è questione di sensibilità assoluta, al punto che anche la Ue ha preso posizione sulla vicenda richiamandosi a una sorta di neutralità. Ebbene, al punto 2 lettera «A» della dichiarazione congiunta, Italia e Azerbaigian scrivono di voler stabilire «una più stretta cooperazione per una pacifica risoluzione del conflitto Nagorno-Karabakh sulla base della sovranità, integrità territoriale e inviolabilità dei confini della repubblica dell’Azerbaigian». È vero che subito dopo si fa riferimento alle risoluzioni Onu sul tema e ai documenti Osce (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa), ma le parole usate sono sembrate alle diplomazie estere uno schierarsi dalla parte degli azeri.
I primi ad andare su tutte le furie sono stati gli armeni, per i quali il tenore del passaggio incriminato è del tutto inaccettabile. Ma il paese più arrabbiato è la Francia, per almeno due ordini di ragioni. Innanzitutto il paese transalpino, insieme a Russia e Stati Uniti, guida il Gruppo di Minsk, ossia quella struttura creata all’interno dell’Osce proprio per trovare una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh. E poi in Francia vivono e votano milioni di armeni. Insomma, un rapporto più che consolidato. E qui bisogna fare attenzione alle date. Il 14 luglio viene firmato l’accordo congiunto Italia-Azerbaigian, il 16 luglio a Bruxelles Renzi riceve il sonoro schiaffone rappresentato dalla bocciatura della Mogherini. Ufficialmente c’è l’opposizione di alcuni paesi dell’Est che accusano la ministra di essere troppo filo-russa, ma in realtà il nervosismo francese si taglia a fette. E forse non è un caso che Renzi stesso, dopo quel mercoledì 16 luglio, ripeta come un mantra che il presidente francese Francois Hollande vuole a tutti i costi un Alto rappresentante della politica estera Ue che viene dal Partito socialista europeo. Un tentativo di far passare Hollande come nostro alleato nella partita.
E arriviamo al 18 luglio, con l’Italia che cerca di mettere una pezza. Due note identiche delle ambasciate italiane a Baku (Azerbaigian) ed Erevan (Armenia) spiegano che a proposito della dichiarazione congiunta «l’Italia crede necessario chiarire il suo attuale obiettivo, per prevenire interpretazioni che non riflettono la posizione del governo italiano». La dichiarazione, si legge subito dopo, «non è diretta contro nessun altro partner dell’Italia» e «non vuole interferire con i negoziati in corso diretti alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh». Infine «l’Italia conferma la propria fiducia negli stessi negoziati» e «nelle azioni portate avanti da Francia, Russia e Stati Uniti», ovvero i paesi che guidano il Gruppo di Minsk. Il cerchio così si chiude, e il 18 luglio le nostre ambasciate devono fare le capriole per arginare il contenuto esplosivo dell’atto firmato da Aliyev e Renzi. Con il primo che già sventola nel suo paese l’accordo presentandolo come un importante risultato politico, mentre noi stiamo ancora discutendo della bontà di un atto che abbiamo firmato ma non ancora ufficializzato. Un disastro totale. Sullo sfondo ci sono le enormi pressioni che l’Azerbaigian sta facendo sull’Italia per la costruzione del Tap (Trans Adriatic Pipeline), ovvero il gasdotto che dovrebbe portare il gas dal Caspio alla Puglia passando per Turchia e Grecia (e che dovrebbe fare concorrenza al South Stream, l’altro gasdotto in cui sono coinvolte Eni e Gazprom). Del resto la stessa dichiarazione congiunta cita il Tap in un passaggio. Partita delicata, con l’Italia che a quanto pare sponsorizza il legame con l’Azerbaigian soprattutto attraverso Armando Varricchio, consigliere diplomatico di Renzi che in molti indicano come il gestore di tutta la partita. Intanto Renzi ieri ha incontrato per oltre un’ora, a Palazzo Chigi, Massimo D’Alema. E il capogruppo socialista a Bruxelles Gianni Pittella ha chiarito il punto: «La nostra candidata è la Mogherini, altrimenti c’è D’Alema». E Juncker aspetta.
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