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Patrimoniale: la tassa che unisce Cuperlo, Civati e Renzi

di FIlippo Limoncelli |3 Dicembre 2013 13:23

Gianni Cuperlo, Matteo Renzi e Giuseppe Civati candidati alla segreteria del Partito Democratico (LaPresse)

ROMA – Era giorno di vigilia e non potevano esserci i fuochi d’artificio. I trioscuri del Pd si sono confrontati venerdì sera in una atmosfera dolce e stucchevole, le divergenze erano appena accennate. Ma, appena usciti dalla X-Factor Arena, il clima è peggiorato. E in attesa dell’Immacolata si fanno guerra più di prima.

Scrive Gianfranco Morra su Italia Oggi:

V’è un punto su cui i tre erano d’accordo: l’introduzione di una imposta patrimoniale. Ma questa imposta è ammissibile, in una economica libera di mercato? E non è ingiusta, in quanto, come quella forma di patrimoniale ordinaria che è l’Ici, non colpisce il reddito, ma il risparmio? E, soprattutto, servirà a dare una spinta alla nostra sventurata economia?

Superate le prime fasi “liberiste” della rivoluzione industriale, gli stati europei hanno visto una confluenza del liberalismo economico e del socialismo riformista. Fra le due guerre mondiali, tutti i paesi hanno assunto il modello del Welfare State, che sottrae ricchezza ai ceti forti per diminuire le differenze tra i cittadini e assicurare loro servizi sociali. Un modello ancora presente dovunque, anche se corretto nei suoi eccessi centralisti e statalisti, che avevano prodotto deficit economico e incancrenito i servizi sociali. I “conservatori” Thatcher e Reagan aprirono in tal senso una nuova via. Seguita anche dal socialista Schröder e oggi dal conservatore Cameron.

Lo strumento principale del Welfare è la tassazione progressiva, necessaria per assicurare assistenza e pace sociale. Ma anche un pericolo per tutti, dato che l’eccessiva tassazione, dovuta agli sprechi abissali dell’assistenzialismo, sottrae capitali all’investimento produttivo e facilita il sottosviluppo. L’Italia è uno dei paesi più tassati, eppure il debito pubblico è passato dal 60 % sul Pil del 1980 al 130 di oggi. Tanto che già il governo Amato aveva fatto ricorso alla patrimoniale: in una notte del 1992 tassò tutti i conti correnti bancari del 6 per mille. Come ogni eccessiva tassazione, così la patrimoniale, anche quando è necessaria, è pericolosa per la crescita economica. Tuttavia escluderla del tutto non è possibile. L’economia è uno strumento, il cui fine è il bene comune. È interessante che un liberale come Luigi Einaudi abbia giustificato la patrimoniale.

Già nel 1920, per sanare i debiti paurosi della prima guerra mondiale; e ancora alla fine della seconda guerra, nel 1946, con uno scritto su L’imposta patrimoniale, ripubblicato da Francesco Giavazzi (Ed. Chiarelettere, 2011). E non solo giustificata, ma anche da lui attuata, nel marzo 1947, mentre era Ministro delle Finanze e del Tesoro. Con lucidità, Einaudi afferma che la patrimoniale, pur essendo il contrario della giustizia tributaria, può essere un urgente strumento per ridurre il debito pubblico. Ed era anche, il grande liberale, favorevole ad un’altra forma di patrimoniale, la tassa di successione, che non colpisce un reddito, ma un risparmio. Una contraddizione? Per niente. Ogni pensiero o atto di Einaudi scaturivano da una sintesi delle teorie liberali classiche, mai messe in dubbio, con la consapevolezza lucida della situazione storica, alla quale i princìpi dovevano adattarsi. Fu il primo presidente della Repubblica, ma aveva votato monarchia. Difese a oltranza l’iniziativa economica, ma combatté tutti i monopoli. Educato e maestro nella scuola pubblica, difese con decisione quella privata (…)

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