Pd, Lorenzo Guerini: “I 14 autosospesi? Rientreranno, non hanno sbocchi”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 13 Giugno 2014 - 08:46 OLTRE 6 MESI FA
“Rientreranno, non hanno sbocchi” il partito chiude la porta alla trattativa

Pina Picierno, Lorenzo Guerini (LaPresse)

ROMA – Quella è la porta, ma ce l’avete un’altra casa? In puro stile renziano, la risposta di Lorenzo Guerini ai 14 autosospesi del Pd è secca: “Alla fine rientreranno tutti, perché non sanno dove andare”.

Non è dunque aria di trattativa, di pontieri, di canali diplomatici. È invece un’aria cattiva di rapporti deteriorati, di scontro a tutto campo se persino il vicesegretario usa questo tono. Proprio lui che nella settimana del viaggio in Asia di Matteo Renzi, ha risolto un paio di questioni delicate con le sue doti di equilibrista e di persona di buon senso. Prima la disputa tra “vecchio” e “nuovo” seguita ad alcuni insuccessi nei ballottaggi, poi il pasticcio del voto sulla responsabilità civile dei giudici.

Scrive Goffredo De Marchis su Repubblica:

Può darsi che adesso sia il momento della sfida, del muro contro muro, della voce grossa e che anche Guerini si adegui. In giococ’è la riforma istituzionale, madre di tutte le battaglie del premier, la chiave per capire l’accelerazione nell’impallinamento di Letta e soprattutto la clamorosa vittoria delle Europee. Pier Ferdinando Casini ha mandato il suo segnale cacciando dalla commissione Mario Mauro. Il Pd ha rincarato con la sostituzione di Mineo. Messaggi destinati a Silvio Berlusconi per fargli capire che sull’abolizione del Senato si fa sul serio. L’alternativa (sottotesto per gli ammutinati) è tornare al voto, con la conseguente perdita dello scranno al Senato.

Non bisogna subito avviare una trattativa, dunque. Semmai è più utile mostrare i muscoli e aspettare l’effetto che fa. Vedere dove creano una breccia le minacce, gli ultimatum. Osservare come si muovo le correnti. Se è possibile, far assaggiare ai dissidenti il pane dell’isolamento. O peggio ancora dei pezzi che si perdono uno a uno. Magari già entro domani quando è convocata l’assemblea nazionale del partito, la prima dopo il 41 per cento. Meglio ancora se non rientrano tutti.
Se in un angolo rimangono 4 o 5 senatori, i più vicini a Pippo Civati, e gli altri tornano nei ranghi ottenendo qualche modifica alla legge del Senato e una promessa sulla legge elettorale.

Quel che è certo è che Corradino Mineo non sarà reintegrato nella commissione. Questo il capogruppo Luigi Zanda lo ha spiegato bene ai senatori solidali. Gianni Cuperlo chiede un gesto di pace clamoroso, cioè un ripensamento. Un passo indietro dello stesso Zanda e Mineo che riprende il suo posto in commissione. Ma il presidente dei senatori è molto chiaro: «Quello di Mineo non è un caso di coscienza. È invece un caso esemplare in cui una minoranza può determinare una maggioranza contraria alle linee del suo gruppo e del suo partito. Partito che ha fatto due direzioni e una decina di assemblee dei senatori per decidere lasua strada».
La questione democratica, ovvero la torsione autoritaria del Pd e del suo leader Renzi, sono tesi campate per aria. È il senso delle parole di Zanda. Il gruppo del Pd sembra pronto ad assorbire anche la defezione dei più arrabbiati: Mineo, Felice Casson, Walter Tocci, Paolo Corsini . Gli altri dieci non faranno colpi di testa e la loro autosospensione finirà già martedì quando è convocata la riunione dei senatori Pd. Quattro dissensi la maggioranza può reggerli. Quattordici no, però. Lo dicono i numeri di Palazzo Madama. Renzi ha ottenuto la fiducia al governo con 169 voti. Senza gli autosospesi si fermerebbe a 155, sei voti sotto il quorum. Forza Italia diventerebbe determinante per le riforme e persino per la tenuta dell’esecutivo. Un bel problema. Anzi, il problema principale, dice il bersaniano Alfredo D’Attorre: «La posizione di Mineo è indifendibile. Non solo. Il paradosso è che chi non vuole fare le riforme con Berlusconi ci consegnerebbe più deboli proprio a Berlusconi». Ma l’invito di D’Attorre è non sottovalutare il caso. «Renzi ha dimostrato di saper trovare un punto di mediazione, deve provarci anche stavolta ». Il deputato bersaniano, già nella notte di martedì, era stato avvertito della rivolta. Che aveva contorni anche più drammatici: «Volevano uscire dal gruppo. Ho cercato Guerini per dirglielo». Bisogna fare attenzione perciò a usare l’ultimatum del voto. «Penso a Mucchetti. Non si spaventa se Renzi ci porta alle elezioni. Da parlamentare guadagna un terzo del suo stipendio da giornalista».

Hanno fatto male le parole di Lotti, quel riferimento ai 14 senatori che non devono “disturbare” i 12 milioni di voti del Pd. Come dire: sono voti di Renzi e Mineo deve stare zitto. Si dice che questo messaggio sarà graficamente presente domani nella scenografia dell’hotel Ergife dove si tiene l’assemblea democratica. Un gigantesco “40,8” campeggerà alle spalle degli oratori. «Ma dentro gli 11 milioni e 100 mila voti – avverte Stefano Fassina, precisando maliziosamente i numeri assoluti – ci sono anche le posizioni di Chiti, le modifiche al decreto lavoro, le correzioni dell’Italicum. Ci siamo tutti, c’è il Pd. I rapporti di forza interni sono scontati. Ma Renzi deve capire che il patto con Berlusconi è morto, con il suo partito deve fare i conti. Se vuole una prova muscolare ne avrà un vantaggio sul breve termine. Sul medio gli si ritorcerà contro » (…)