ROMA – Si sta alzando un rumore di fondo poco sopportabile sulle pensioni. Chiunque, a diverso titolo, abbia a che fare con la previdenza sembra sentirsi in diritto di indicare quali debbano essere i cambiamenti necessari al sistema pensionistico. E quello che disturba maggiormente è che viene utilizzato un approccio esclusivamente contabile per farne discendere possibili modifiche o, abusando del termine, riforme. Si dimentica che ogni volta che si interviene sulle pensioni è come se si procedesse, con molta leggerezza, alla rottura di un patto tra cittadino e Stato.
Come riporta Daniele Manca sul Corriere della Sera,
nel 2011 è stata varata una dolorosa riforma che porta il nome dell’allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Dolorosa quanto necessaria e, a unanime giudizio, il passo che ha garantito all’Italia di poter riprendere un cammino di risanamento dei conti pubblici e di potenziale sviluppo.
Gli effetti sono stati pesanti sui cittadini ma altrettanto positivi sulla stabilità finanziaria del nostro Paese. La dimensione di quanto fatto nel settore l’ha ricordata Enrico Marro lo scorso 14 aprile sul Corriere della Sera, sottolineando come a pagina 83 del Documento economico e finanziario (Def) venisse indicato il risparmio dovuto ai vari interventi sul sistema pensionistico dal 2004 al 2011 (Fornero compresa). Risparmi valutati in 60 punti di Prodotto interno lordo fino al 2050. Vale a dire mille miliardi attuali. Una cifra rilevante e che di per sé dà la misura delle conseguenze sulle persone Per avere un punto di riferimento, il debito pubblico italiano, secondo Banca d’Italia, era pari a febbraio di quest’anno a 2.169,2 miliardi. È comprensibile quindi come ogni volta che si paventano possibili misure sulle pensioni si mandi in fibrillazione, in modo superficiale e immotivato, larghe fasce di popolazione.
Con leggerezza si parla di trattamenti pensionistici e spesso ci si dimentica, in buona o in malafede, di distinguere tra quelli già in essere e percepiti attualmente da quelli futuri. Con altrettanta poca accortezza si procede a ricalcoli che riguardano i redditi di alcune categorie, lasciando sottintendere, anche qui, dei provvedimenti. Si alimenta così nel Paese una paralizzante sensazione di precarietà.
Colpevolmente si tende a indicare come un problema previdenziale l’assistenza dovuta a persone che in tarda età e lontani dalla pensione si trovano a perdere il lavoro. Con artifici retorici si disegnano interventi per accompagnare al ritiro definitivo dal mondo del lavoro chi si ritrova disoccupato attorno ai 60 anni. Si vorrebbe rendere più flessibile l’uscita con l’illusione che la si possa finanziare attraverso una riduzione dell’assegno percepito da chi ne usufruisce e, magari, intervenendo su quanti godono di elevati trattamenti (…)