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Renato Brunetta a Matteo Renzi: Due sole riforme, fisco e lavoro

di Gianluca Pace |8 Settembre 2014 12:40

Renato Brunetta

ROMA – Renato Brunetta ha diffuso attraverso il Giornale di Berlusconi la sua ricetta per l’Italia. Secondo Brunetta servono solo due riforme, quella del fisco, nel senso di ridurre le tasse e del mercato del lavoro, nel senso di rendere tutto più flessibile.
Tutto il resto non serve e tutte le riforme su cui si sono affannati Mario Monti e Enrico Letta sono inutili se non dannose.

Renato Brunetta ha ampiamente ragione ma dimentica un dettaglio: che il suo leader Berlusconi è stato al Governo per parecchi anni e ha dovuto cedere il posto a Mario Monti proprio a causa della provata incapacità di fare qualsiasi cosa.
Avrà avuto le sue ragioni, Berlusconi, riassumibili nel ricatto di Umberto Bossi che tutelava, dal suo territorio elettorale, gli interessi del proletariato del Nord e nel fatto che se avesse sfidato Bossi a una crisi, c’erano i carabinieri fuori del portone di Palazzo Chigi per portarlo a San Vittore.
Ma resta il fatto che dalla parte di Berlusconi non è molto giustificato alzare la voce. Infatti giustamente Berlusconi tace e lascia parlare i suoi fidi, i cui argomenti, peraltro, sono tutt’altro che banali.

L’articolo di Renato Brunetta:

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.
«Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010»: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta.
Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato. Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme.
L’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del «super ministro» Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico; l’abolizione del reato di immigrazione clandestina.
Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e della cancelliera tedesca Angela Merkel. Oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche.
Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione Ue il 26 ottobre 2011 dopo la lettera Bce al governo del 5 agosto.
Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme su lavoro, scuola, Pa, liberalizzazioni e infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che andavano nella direzione opposta. Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà dalla completa implementazione (entro 100 giorni, abbiamo detto noi, perché mille non li abbiamo) della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, ma che occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività con il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.
Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat.
Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere.
A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.
New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità.

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