ROMA – L‘aumento della tassa sulle rendite finanziarie dal 20 al 25 per cento sarà
“la prima misura economica che Matteo Renzi con il suo nuovo governo adotterà”
e sarà, scrive Franco Bechis su Libero,
“un aumento di tasse”.
Il titolo di Libero è allarmante:
“Occhio al portafogli: la prima mossa sarà tassarci i risparmi”
e Franco Bechis elabora:
“Lui non le considera tasse, ed è convinto che non sia per nulla impopolare aumentare le aliquote sui cosiddetti capital gain, e cioè sui guadagni di borsa e le rendite finanziarie. È stato quasi un ritornello per Renzi sia nella campagna per le primarie 2012 che in quella per il 2013.
L’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie è espressamente previsto nel «jobs act», la proposta ancora in bozza di riforma del lavoro presentata dall’attuale segretario del Pd.
L’idea è portare l’attuale aliquota del 20% al 25%, che è più o meno la media della tassazione nei 18 paesi dell’area dell’euro. Tutto quel che si ricava da questa misura nella proposta originaria sarebbe dovuto andare a ridurre l’Irap, che è la tassa più contestata dalle imprese italiane (odiosa anche perché la base imponibile si calcola sulla forza lavoro in carica, e quindi penalizza più chi assume di chi licenzia). L’aumento della tassa sulle rendite finanziarie, che comunque colpisce anche tutti i piccoli risparmiatori (quelli che investono in azioni o obbligazioni), sarebbe rilevante: quei 5 punti sono un rincaro fiscale del 25%.
Ma non così consistente come entrata. Quella aliquota infatti è stata ritoccata in tempi abbastanza recenti: fu il governo di Mario Monti a farlo all’inizio del suo mandato, portando la tassazione dal 12,5% al 20%. Un aumento di 7,5 punti percentuali, che nel 2012 ha dato un maggiore gettito di 2,2 miliardi di euro. Se quello fosse il parametro, dalla proposta Renzi dovrebbero arrivare massimo 1,4-1,5 miliardi di entrate, che sulla riduzione dell’Irap sarebbero appena una aspirina.
Visto che il 2012 è stato anno di crisi anche per i mercati finanziari e di guadagni dalle rendite se ne sono visti pochini, in questo 2014 l’incasso potrebbe anche essere maggiore. Ma sempre di piccole cifre si tratterebbe.
Non solo: convogliarle a drenare l’Irap sarebbe certamente gradito dalle imprese, e non è un mistero che Confindustria abbia dato una spallata decisiva ad Enrico Letta aiutando Renzi a spianare la strada, ed ora si attende un robusto ringraziamento. Ma la riduzione dell’Irap non avrebbe alcun vantaggio tangibile nel breve medio periodo per i lavoratori dipendenti. E al nuovo premier serve dare un segno soprattutto lì”.
Questo non è vero. L’Irap, tassa inventata da Vincenzo Visco, quando era ministro delle Finanze senza capire che, alla faccia della sinistra, avrebbe penalizzato proprio l‘occupazione, è una tassa che colpisce i redditi delle imprese prima del costo del lavoro. Di conseguenza, più una azienda ha dipendenti, più paga di Irap, che è una contraddizione con un dovere fondamentale della sinistra, che è quella di favorire lo sviluppo della occupazione.
Una riduzione dell’Irap sarebbe una misura più positiva per le imprese di tutti i cunei fiscali, che oggi si riducono e domani si alzano secondo i capricci di qualche funzionario ministeriale e di qualche ministro più o meno sprovveduto.
Comunque, secondo Franco Bechis,
“è probabile che Renzi cerchi con quell’aumento delle rendite finanziarie di convogliare tutte le risorse previste per aumentare la dotazione sulla riduzione del cuneo fiscale già prevista nella legge di stabilità. Il segretario del Pd però sa benissimo che se gli sconti fiscali non hanno un valore tangibile in busta paga, rischiano di diventare inutili se non dannosi (perché si pompano risorse in ristrettezza di bilancio senza ottenere effetti reali sul ciclo economico). […]
Per ottenere risorse robuste dalla tassazione delle rendite bisognerebbe inserirvi anche i titoli di Stato, che oggi sono al 12,5%. Oggi sarebbe più fattibile di un tempo, perché la maggioranza del debito pubblico è in mani italiane e il contraccolpo sugli investitori stranieri sarebbe meno drammatico. Ma grave sarebbe comunque, perché con gli spread bassi i titoli italiani sono sì più sicuri, ma assai meno attraenti, e se si tolgono i vantaggi fiscali, la loro attrazione fuori dai confini sarebbe davvero minima”.
Anche se
“il segretario del Pd ha praticamente tradito nelle ultime settimane ogni promessa politica fatta con i mercati e i programmi economici si può giocare meno, e in ogni occasione Renzi ha escluso con nettezza l’ipotesi di varo di leggi patrimoniali, che una parte della sinistra chiede a gran voce (ieri perfino Franco Marini).
Uno dei renzismi classici che torna in molti discorsi e interviste è «noi non chiederemo di pagare di più a chi ha di più, vogliamo far pagare di meno a chi ha di meno. La sinistra che piace a me non fa la guerra alla ricchezza, fa la guerra alla povertà».
Probabilmente Renzi adotterà subito provvedimenti spot sui tagli ai costi della politica e contro i grandi burocrati di Stato (non dormirei sonni tranquilli mi chiamassi Attilio Befera), anche per dare in pasto agli elettori qualcosa di molto simbolico che costa poco.
Però due interventi seri è costretto a fare: l’aumento della dotazione per ridurre il cuneo fiscale e un provvedimento per tamponare la crisi occupazione giovanile. Soldi non ce ne sono, ma qualche azzardo è possibile con coperture un po’ farlocche: sul deficit non c’è la mina della restituzione dei debiti della P.A. con le imprese che aveva pesato per quasi 0,7 punti di Pil nel 2013, e un po’ di margine si può giocare per restare comunque sotto il 3% nel rapporto deficit/pil”.