ROMA – Nel tripudio generale con cui i giornali italiani accolgono, ogni sussurro di Matteo Renzi, sempre più simile a Capitan Miki, eroe dei fumetti di una volta, poche sono le eccezioni.
Stefano Lepri sulla Stampa e Federico Fubini su Repubblica sono eccezioni nell’eccezione, perché hanno scritto parole posate e critiche su giornali che quando fanno il nome di Renzi lo accompagnano con una genuflessione e un inchino, come i buoni cristiani ogni volta che passano davanti all’altare.
Stefano Lepri ha scritto:
“Nelle attuali condizioni in cui si trova l’Italia, il limite del 3% al deficit può essere definito «anacronistico» soltanto in un senso opposto a quello che intende Matteo Renzi.
Non è troppo basso: è invece troppo alto per assicurare un calo duraturo del debito pubblico italiano. Cosicché continuare a proclamare che vorremmo oltrepassarlo rappresenta, all’estero, un vero autogol.
Nel breve termine, per uscire dal pantano in cui siamo, è ragionevole invocare sul deficit qualche spazio di manovra in più. Se si avviano riforme importanti, che all’inizio comportano anche effetti negativi, può essere legittimo derogare alle regole (assai più dure del 3% di deficit) stabilite sia dal nuovo articolo 81 della nostra Costituzione sia dal «Fiscal Compact» europeo.
Ma nel medio periodo occorre che il debito non continui ad aumentare. Basta una aritmetica elementare per arrivarci. Con un debito di 2070 miliardi e un prodotto lordo di 1560, se in un anno la prima delle due grandezze cresce di 46,8 miliardi (tre centesimi di 1560) per evitare che il rapporto salga la seconda deve salire di almeno il 2,3%.
Così com’è l’economia italiana ha, secondo i calcoli economici correnti, un potenziale di crescita tutt’al più dello 0,5% annuo.
Sommando questa crescita reale e l’aumento dei prezzi, il prodotto lordo può dunque salire al massimo di circa 2,5 punti (0,5 più l’obiettivo Bce del 2% di inflazione) in una media pluriennale. In questo modo il debito tutt’al più scenderebbe di un’inezia.
Conteggi di questo tipo preoccupano gli altri Paesi e le istituzioni internazionali. Nel mondo c’è abbondanza di capitali, dunque in linea di principio spazio per finanziare i debiti; ma proprio questa abbondanza moltiplica l’instabilità, fa spostare gli investitori in modo volubile alla ricerca di maggiori rendimenti. Oggi l’Italia torna ad attirare, domani chissà.
E poi, in nome di che cosa si può rivendicare al nostro Stato la facoltà di fare più debiti, se è dilagata nel Paese la convinzione che i debiti precedenti li abbia accumulati spendendo male? Nelle proposte formulate dal commissario alla spesa Carlo Cottarelli c’è tutto il necessario per riesaminare come la nostra amministrazione pubblica impiega il denaro dei contribuenti.
Però, guarda caso, appena si arriva al concreto molti dei fautori dei tagli alle spese si dileguano. Appena si capisce che occorre togliere qualcosa a qualcuno, affrontare questioni impopolari, prendere di petto interessi consolidati e radicati nella nostra società, ecco si fa ricorso a ben noti espedienti retorici: «ci vuole ben altro», «sono tagli rozzi», «rinunceremmo all’indispensabile»”.
Federico Fubini su Repubblica, ha ricordato che mercoledì, parlando alla Camera, Matteo Renzi ha detto:
«Il tema del 3% nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo è obiettivamente anacronistico». In passato Renzi aveva osservato che quella soglia fu inventata «quando ancora non c’era Google, quando la Cina o l’India non erano ancora esplose».
Quel vincolo per lui appartiene a un’altra epoca, anche se il premier si impegna a rispettarlo visto che l’Italia l’ha sottoscritto”.
Anzi, incalza Federico Fubini,
“esistono accordi europei sui conti pubblici che l’Italia ha appena sottoscritto. E, per inciso, ci sono anche i fatti. Uno di questi è che quando la regola del 3% fu fissata nel Trattato di Maastricht nel 1992 il debito pubblico del governo di Roma era al 120% del Pil, mentre quest’anno si avvicinerà al 134% o forse al 137%, se davvero verranno pagati i debiti commerciali della pubblica amministrazione.
Non è un dettaglio da poco, se non si vuol condannare la prossima generazione a vivere sotto una cappa di debiti come le generazioni scorse hanno condannato questa. I calcoli sono presto fatti: secondo una simulazione di Reuters, con una crescita nella media dell’ultimo decennio, un’inflazione e un costo del debito bassi come oggi e un surplus di bilancio prima di pagare gli interessi appena minore di quello del 2013, tra vent’anni il debito pubblico dell’Italia sarà enorme. Il 120% del Pil. Soggetto a scossoni ogni volta che uno choc interno o internazionale colpirà il Paese: e inevitabilmente capiterà.
È per provare a prevenire uno scenario del genere nei prossimi vent’anni, non per tornare indietro di altri venti, che l’Italia ha appena cambiato la propria costituzione in linea con i recenti accordi europei. Il Fiscal Compact, il quadro attuale di regole di bilancio, è stato firmato da tutti i Paesi il 2 marzo 2012. Con un provvedimento del 20 aprile 2012 il Parlamento italiano integra i principi europei in Costituzione in questi termini: «Lo Stato assicura l’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e previa autorizzazione delle Camere a maggioranza assoluta, al verificarsi di eventi eccezionali. Le pubbliche amministrazioni assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito».
È la traduzione italiana di una griglia europea recente come la crisi che l’ha generata: l’impegno mira a migliorare ogni anno il saldo di bilancio (al netto delle fasi recessive), mirare a un sostanziale pareggio e, dal 2016, ridurre il debito a passo accelerato. Regole «stupide », come dieci anni fa definì la prima versione del Patto di stabilità Romano Prodi? Sì, se applicate illudendosi che bastino a se stesse e senza tenere conto dell’elasticità che vi è costruita dentro. Regole anche soffocanti, se fatte funzionare come una camicia di forza fra europei che non si fidano gli uni degli altri.
Quanto a questo, con il suo debito, la crescita cronicamente assente e una politica illeggibile, l’Italia non fa molto per creare fiducia intorno a sé. La Commissione europea le ha chiesto in novembre (a Palazzo Chigi c’era ancora Enrico Letta) di spiegare meglio come e quanto intende privatizzare quest’anno e quali tagli di spesa vuole fare. Solo con questi chiarimenti, Bruxelles permetterà al Paese di creare un po’ di deficit in più nel 2014 per sostenere la ripresa dell’economia. Ma sono passati quattro mesi da allora e Renzi di privatizzazioni per ora non parla: senza di esse, il debito salirà ancora di più. Quanto alla spending review, le proposte «tecniche» ci sono ma le decisioni politiche non ancora.
A Berlino tre giorni fa, Renzi ha sinceramente impressionato Angela Merkel e il suo ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier con la sua professionalità, lo stile concreto e la voglia di affrontare i nodi che soffocano il Paese. La cancelliera osserva con interesse e con il beneficio del dubbio: lascerà che sia Bruxelles a ricordare all’Italia i rischi e le regole di bilancio. Ma, per Renzi, preparare questa verifica annunciando una «lotta contro un’Europa espressione della burocrazia» non è forse il modo più efficiente di creare fiducia intorno ai suoi piani”.